Che c’è di nuovo a stelle e strisce?

Stelle a strisce
Per le strade di Manhattan, la febbre per le imminenti elezioni presidenziali cresce di giorno in giorno. Nel campus della Columbia University si scorgono drappelli di professori e studenti che parlano con passione di politica, commentano i dibattiti televisivi dei candidati, azzardano pronostici. Di questi tempi parlare di politica è come parlare di baseball, il che non è cosa comune da queste parti. Un esempio: Jason, originario di Puerto Rico, vive a Brooklyn e lavora in una palestra a Manhattan. Ha 25 anni, ma non si è mai recato alle urne. Quest’anno però le elezioni lo hanno contagiato. Non si è perso un dibattito televisivo e ai suoi clienti raccomanda di andare a votare. Voto per Obama – dice -, perché voglio essere parte della storia. Per le avenue della Grande Mela non si vedono gigantografie dei candidati o cartelloni pubblicitari. Oggi il messaggio politico scorre per le autostrade di Internet, fa capolino sui cellulari, alla televisione e nelle radio, ed è moltiplicato dall’esercito di cittadini che portano sulle loro giacche le insegne dell’uno o dell’altro candidato. Sta soprattutto qui il fattore nuovo: questa passione, questa voglia di politica, di voler contare, di cambiare. Barack e John Ma qual è il motivo per tanta partecipazione ed interesse? C’è la sensazione che il 4 novembre sarà una data storica per la politica statunitense. I due candidati alla presidenza sono sicuramente una coppia inedita. Il democratico Barack Obama è il primo candidato di colore che ha una possibilità reale di essere eletto alla Casa Bianca. Se vince, sarà il primo presidente degli Stati Uniti ad avere la nonna che vive in un remoto villaggio di pastori in Kenya. Questa notizia da sola dice la grande novità e invita a riflettere su quali saranno i cambiamenti nella percezione che il mondo ha degli Usa e viceversa. Quella di Obama è una novità che, com’è proprio di tutto ciò che non è stato ancora sperimentato, provoca anche una certa dose di ansietà. Davvero gli Stati Uniti sono maturi per un presidente nero?, è la domanda di alcuni. È sì un gran comunicatore, ma sarà capace di governare?, è la domanda di altri. I democratici per davvero ritorneranno alla Casa Bianca?, si domandano ancora gli scettici, didisincantati dal fatto che negli ultimi quarant’anni solo tre presidenti degli Stati Uniti provenivano dalle file del partito democratico (Jimmy Carter e due volte Bill Clinton). E poi ci sono le ansie di molti afroamericani, che si stropicciano gli occhi di fronte alla possibilità che un nero diventi presidente, ma che temono che il razzismo latente alla fine abbia la meglio e che, una volta nella cabina elettorale, la maggior parte voteranno per il bianco McCain. Ma anche John McCain è, per i repubblicani, un candidato sui generis. Nel 2000, durante le primarie, era stato scalzato malamente dall’attuale presidente George W. Bush, che lo aveva accusato di non essere sufficientemente conservatore ed era riuscito ad aizzare contro McCain i movimenti religiosi cristiani della destra statunitense. Passati otto anni, ed appresa la lezione, McCain si è ripresentato al popolo conservatore, accentuando la sua identità conservatrice. Contro ogni previsione iniziale, è riuscito a vincere le primarie che in un primo momento lo avevano visto moribondo. Ahi ahi, Wall Street! Ma non sono solo questi gli elementi di novità. Vi è qualcosa che va oltre i candidati e che ha a che fare con lo stato di salute generale degli Stati Uniti, oggi evidenziato dalla crisi nei mercati finanziari. Infatti, c’è voluta la tempesta su Wall Street e il sistema finanziario mondiale per riportare il dibattito politico delle presidenziali sui temi seri come il lavoro, la salute e l’educazione al centro della contesa tra McCain e Obama. Riecheggia lo slogan che aveva scelto la campagna di Bill Clinton nel 1992 per concentrarsi su ciò che davvero sta a cuore alla gente: It’s the economic, stupid! è l’economia, stupido! La novità di questa stagione elettorale è il fatto che mai come durante questi ultimi otto anni gli statunitensi hanno sperimentato che un presidente può mettere a repentaglio il benessere e il prestigio della loro nazione. Con un tasso di gradimento che si aggira attorno al 20 per cento, il presidente Bush ha battuto molti record di impopolarità. Alla sua amministrazione, gli statunitensi non sono disposti a dare la sufficienza. E vi è un motivo se Mc- Cain, soprattutto durante la convention del partito repubblicano, ha cercato di distanziarsi dal suo presidente. Imitando Obama, si è presentato come l’apostolo delcambiamento, seppur senza troppo convincere. Le ragioni di McCain per non identificarsi con Bush sono serie. Durante la sua amministrazione, infatti, il debito nazionale è quasi raddoppiato, raggiungendo i 10 mila miliardi di dollari. Il budget per il prossimo anno prevede un debito di mezzo trilione di dollari, una cifra notevole se si pensa che Clinton aveva lasciato un surplus di 700 miliardi di dollari. Durante l’era Bush, il numero di posti di lavoro creati dal settore privato è solo un sesto di quelli creati durante l’amministrazione Clinton. E cinque milioni di persone sono sprofondate in povertà. Il numero di statunitensi senza assicurazione sanitaria è cresciuto di 7 milioni, mentre il costo di tali assicurazioni è quasi raddoppiato. Il peso fiscale, invece, è passato dai più ricchi alla classe media, aumentando così i livelli di disuguaglianza. Ahi ahi, Iraq e Afghanistan! Le cose non vanno meglio sul fronte internazionale. Sono 150 mila i soldati Usa di stanza in Iraq e altri 33 mila in Afghanistan. Il dibattito sull’opportunità o meno di abbattere il regime di Saddam Hussein è ancora aperto, ma non vi sono più dubbi che l’amministrazione Bush abbia utilizzato la menzogna e la manipolazione mediatica per avere l’appoggio degli statunitensi per l’invasione e l’occupazione dell’Iraq. Oltre ad una spesa che ad oggi supera i 600 miliardi di dollari, il costo della guerra è di oltre 4 mila soldati Usa morti, di oltre 30 mila feriti, ai quali si aggiungono la morte di centinaia di migliaia di iracheni e lo sfollamento di 4 milioni e mezzo di uomini, donne e bambini. Inoltre, la tortura dei prigionieri, autorizzata ai massimi livelli del governo, ha rappresentato una vera calamità della diplomazia pubblica statunitense. Quel quasi 80 per cento che esprime un giudizio negativo su Bush, si sente frustrato e ingannato. Lo si capirà allora, molto dell’entusiasmo e della novità di queste presidenziali ha radice in una profonda insoddisfazione. I due candidati hanno cercato di sintonizzarsi con i malumori del Paese e di incarnare una risposta. Per questo, entrambi parlano, con effetti diversi, di cambiamento. Per questo, il dibattito si è concentrato anche sul carattere dei due candidati e sulla loro abilità di leadership. Il prestigioso New Yorker, in un lungo editoriale sulle prossime elezioni, sottolinea che i prossimi anni richiederanno non solo determinazione, ma anche diplomazia, flessibilità, pazienza, capacità di giudizio e impegno intellettuale. Diversità La diversità tra i due candidati è evidente sia in campo di politica interna che estera. Dopo la sconfitta del 2000, McCain si era presentato come l’uomo-ponte tra il partito repubblicano e il partito democratico, ed aveva proposto disegni di legge sponsorizzati anche da colleghi dell’opposizione. Per questo si era guadagnato il titolo di maverick, cioè di indipendente e alternativo. Con i democratici, aveva promosso il dibattito sulla normalizzazione dei rapporti con il Vietnam, la riforma del finanziamento delle campagne elettorali e la riforma sull’immigrazione. Insieme al senatore Ted Kennedy, fratello di JFK e Robert Kennedy, aveva promosso la carta dei diritti del paziente. Nel 2001 e nel 2003, aveva votato contro il taglio delle tasse per i più agiati voluto dal presidente Bush. Si era impegnato, insieme a democratici come John Kerry, a favore di politiche per l’ambiente. Dal 2004, McCain ha capovolto molte delle sue decisioni per compiacere alla base conservatrice del partito repubblicano. In campo di riforma per l’immigrazione, per esempio, ha votato contro il disegno di legge da lui stesso proposto. Oggi è in favore di un ulteriore taglio delle tasse per i più ricchi. Ma quello che crea una certa ansietà tra i repubblicani è la propensione di Mc- Cain alla erraticità, come ha dimostrato, per esempio, la scelta della sua vicepresidente, Sarah Palin. Dopo un primo momento di sorpresa e di euforia dei conservatori, alcune interviste televisive che hanno rivelato la scarsa preparazione della Palin in materia di politica estera, hanno messo in discussione la capacità di McCain di fare scelte ponderate e meditate in momenti cruciali. Giovane, di colore, abile nell’uso della parola, per Barack Obama era più semplice presentarsi all’e-lettorato americano come l’incarnazione del cambiamento e della speranza. Obama ha condotto in maniera pressoché impeccabile, senza quasi mai cedere alla tentazione della politica dai colpi bassi, la sua campagna elettorale per quasi due anni. Il confronto con l’esperienza e l’abilità di Hillary Clinton durante le difficili primarie lo hanno tonificato. Alla sua campagna elettorale ha cercato di portare ossigeno e idee nuove. Facendo buon uso di Internet (il 24enne fondatore di Facebook è responsabile della strategia Internet del candidato democratico) e credendo nella capacità di auto-organizzarsi delle piccole comunità, Obama ha promosso un vero e proprio movimento sociale, che sembra riprodursi all’infinito in maniera spontanea in milioni di iniziative e di gruppi dall’est all’ovest degli Stati Uniti. Quando il suo populismo ha incominciato a suscitare qualche disinteresse e noia, Obama ha presentato alcuni dettagli delle sue proposte. Riguardo alla crisi economica, gli esperti hanno notato la sua capacità di preoccuparsi sia per la stabilità dei mercati che per la protezione della maggioranza della popolazione che non ha potuto godere degli anni positivi dell’economia. Obama ha richiesto maggiore regolazione dei sistemi finanziari. Le differenza di tono e di contenuti si notano nei due candidati anche in materia di politica estera. Mentre McCain sottolinea la necessità dell’uso della forza e di mantenere la supremazia militare e politica degli Stati Uniti, Obama ha scelto un linguaggio più sfumato. McCain è solito dire: Sono pronto a lavorare con le nazioni che condividono i nostri valori , mentre Obama enfatizza parole come interconnessione e potere diffuso. Sembra un leader cosciente della realtà interdipendente del nostro mondo, e più che sottolineare la forza degli Stati preferisce parlare di consenso. Nel suo libro The Audacity of Hope, Il coraggio della speranza, scrive di voler costruire un nuovo consenso internazionale per affrontare le sfide poste da minacce transnazionali. Il mondo forgiato dalla competizione tra forze non esiste più, dice Obama. Oggi le sfide sono rappresentate da reti terroristiche impegnate a respingere o distruggere le forze della globalizzazione, da malattie pandemiche come l’influenza aviaria, o cambi catastrofici nel clima della terra. La risposta a queste sfide, per Obama, risiede nel radunare coalizioni multinazionali e nell’aggiornare i tradizionali strumenti della politica estera. Al voto! Da alcune settimane, i sondaggi danno in netto vantaggio Barack Obama. Ma saranno i cittadini statunitensi il prossimo 4 novembre a dare il responso finale e a decidere chi, tra i due candidati, sarà colui che dovrà far uscire gli Stati Uniti da anni bui. Per ora, il mondo resta a guardare. Con un misto di speranza e scetticismo.

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