Celeste Aida

L’hanno definita faraonica, colossale, e via dicendo. Sarà. I gusti sono gusti. Ma quel che è certo, a fine di uno spettacolo tanto grandioso quanto incredibilmente leggero, resta un sentimento di gratitudine. A Verdi che dal 1871 regala una musica di una raffinatezza unica, di melodiosità traboccante, vera nei suoi tipici personaggi: Radames, l’eroe puro, Aida, la ragazza selvaggia, Amneris, la signora gelosa, Amonasro, il padre-padrone e Ramfis, il potere spietato. Perché Aida non è la marcia trionfale, spettacolo nello spettacolo che è però solo l’ambiente sociale in cui si svolge una storia d’amore intima, che inizia con un preludio sottile e termina sui sovracuti celestiali dei violini in pianissimo. E Riccardo Chailly, dirigendo con passione traboccante un’orchestra in stato di grazia – dagli archi vellutati ai legni, specie l’oboe, multicolori, agli ottoni sgargianti – ed un cast al massimo dell’impegno (la lirica Aida di Violeta Umana, il bel Radames di Walter Fraccaro, la forte Amneris di Ildiko Komlosi, il fiero Carlo Guelfi- Amonasro, il severo Ramfis di Orlin Anastassov e il solenne Re di Marco Spotti) ne ha dato una lettura spesso rivelatrice: ricchezze armoniche inusuali, sfumature coloristiche nuove e, soprattutto, nessun accento pompieristico da avanspettacolo nelle scene dei ballabili e del trionfo. Piuttosto, sottigliezze liriche e delicatezze sentimentali. Gratitudine a Zeffirelli. Si sa, il suo è uno stile da scuola viscontiana, grandioso e raffinato: ricrea con gusto gli interni del tempio, immagina una notte sul Nilo con una sfinge che emerge dall’acqua – trovata bellissima – immette sul palco oltre 300 persone in un trionfo che è giubilo popolare. Luci e colori, anche grazie ai costumi bellissimi, si esaltano e si nascondono a vicenda. Poi, da uomo di teatro che conosce e ama la musica – qualità che difetta a molti registi d’opera (e i risultati si vedono…) – fa compiere ai cantanti-attori e alle masse i movimenti giusti, a tempo con la musica e secondo le indicazioni del libretto. Ne esce non un’operazione archeologica o un filmone hollywoodiano, ma una ricreazione personale e rispettosa di un capolavoro che scivola in fretta verso il finale, dramma sì ma svelto come voleva Verdi, e come piace a noi moderni, che non amiamo le lungaggini. Anche il balletto centrale – con Luciana Savignano e Roberto Bolle scatenati in una danza selvaggia e sensuale sui ritmi verdiani – passa in un attimo (ma dura quasi venti minuti!). Tanta è la complicità regista-direttore- artisti in questa Aida, che mancava dalla Scala dal 1985. Nella quale va ricercato il motivo di un risultato splendido. Checchè se ne dica, e con buona pace anche dei sostenitori del caso Roberto Alagna, il cui forfait, forse eccessivo, è tuttavia anche spiegabile. Non si dovrebbe andare ad uno spettacolo già col fischio in tasca, ma con rispetto e premura verso gli interpreti, chiunque siano. Per far vincere la musica. Come è successo, con questa Aida finalmente, dopo tanti spettacoli estivi, ricondotta all’interno del teatro per cui è nata.

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