Il caso di Lambert scuote le coscienze

La sospensione dell’idratazione e della alimentazione decisa dalla Cassazione francese non è rifiuto dell’accanimento terapeutico ma vera e propria pratica eutanasica. Dalla madre un ultimo tentativo di appello all'Onu per chiedere l'applicazione dei diritti delle persone disabili.

 

Ancora una volta ci troviamo a commentare una storia dolorosa in cui la vita si trova a dover ricercare le ragioni del suo protrarsi quando chi la vive è consegnato al limbo dell’estrema impossibilità a comunicare (almeno con gli attuali mezzi a nostra disposizione): 10 anni fa l’infermiere Vincent Lambert 31 anni, sposato e con una figlia appena nata, è coinvolto in un incidente automobilistico che lo costringe in un letto d’ospedale con la diagnosi di stato di minima coscienza, una situazione di gravissima disabilità che richiede l’accudimento totale ma non necessita di ventilazione artificiale e quindi non prevede di “essere attaccati” ad alcuna macchina.

Un fatto drammatico che distrugge la vita di una famiglia, non solo per il dolore del fatto in sé, ma anche per la battaglia legale che da quel momento comincia tra la moglie (che chiede l’accompagnamento alla morte attraverso la sospensione dell’idratazione e dell’alimentazione perché, riferisce, la volontà del marito, espressa verbalmente e mai per iscritto, sarebbe quella di non voler vivere in condizioni di estrema dipendenza); e i genitori che rivendicano il diritto di assistere il figlio che, a loro dire, gira la testa se lo si chiama per nome ed esprime una qualche capacità di risposta cosciente agli stimoli.

Una storia già vista, purtroppo, che va avanti a colpi di sentenze e di ricorsi e che sembra, a questo punto, arrivata al capolinea, quando la Cassazione ha dato il consenso per la sospensione. I genitori, in realtà, hanno fatto un ulteriore tentativo rivolgendosi alla sede dell’Onu a Ginevra con un commovente appello della madre che rivendica la grave violazione dei diritti delle persone disabili che si sta consumando.

Per questo motivo ha deciso di studiare la situazione anche il Comitato Internazionale dei Diritti delle persone con Disabilità per cercare di capire se, nel caso di Lambert, ci sia in fondo una discriminazione sulle sue condizioni di disabile.

Quando sull’andamento di un percorso terapeutico ed assistenziale, l’opportunità di andare avanti nelle terapie è obbligata per sentenza e non per la considerazione delle reali condizioni del soggetto è già una sconfitta; in questo caso, poi si ripete ciò che è già accaduto più volte, purtroppo anche in Italia, nel caso Englaro e in altri casi di Stato di minima coscienza, in cui non ci sono macchinari che tengono artificialmente in vita un paziente, ma i suoi parametri vitali sono mantenuti in modo autonomo, mentre permane uno stato di coscienza e di responsività agli stimoli, minimo, appunto. In questi casi la sospensione dell’alimentazione e dell’idratazione non è evitare l’accanimento terapeutico, perché non ci sono terapie particolari in atto, c’è una necessità estrema di accudimento e di cura.

In questi casi è in gioco il valore che si dà alla vita, assieme a considerazioni più o meno evidenti sul “ne vale la pena?”, sulla qualità di vita, sull’opportunità o meno di investire risorse economiche nel trattamento di un soggetto che forse non riprenderà mai una vita autonoma, sul senso di solidarietà, sulla dignità di ogni persona, ecc…

Tutte considerazioni comprensibili, domande legittime, ma se si toglie il cibo e l’acqua bisogna essere chiari, la parola corretta da usare è eutanasia.

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