Il caso Marco Vannini

Il ventunenne morto a Ladispoli il 18 maggio 2015 in circostanze mai chiarite, ucciso da un colpo di pistola mentre era in casa della famiglia della fidanzata.La riqualificazione del reato di chi ha sparato è apparsa incomprensibile. Una petizione sul sito change.org ha raggiunto le 200 mila firme

Da più parti ci si trova spesso a lamentare come i social stiano diventando una sorta di tribunale popolare, dove “laggente” (come ironicamente la si soprannomina) sputa sentenze sui casi più disparati, e non necessariamente con cognizione di causa. Questa volta, tuttavia, il web si è mobilitato per una sentenza – nel senso proprio del termine, questa volta – che ha diviso anche la politica e il mondo giudiziario. Stiamo parlando del caso di Marco Vannini, il ventunenne morto a Ladispoli il 18 maggio 2015 in circostanze mai chiarite, ucciso da un colpo di pistola mentre era in casa della famiglia della fidanzata. La Corte d’Assise d’Appello di Roma ha infatti ridotto da 14 a 5 anni di reclusione la condanna comminata ad Antonio Ciontoli, che avrebbe materialmente sparato, riqualificando il reato da omicidio volontario ad omicidio colposo; e confermato i tre anni inflitti alla moglie Marina Pezzillo e ai figli Martina – fidanzata di Marco – e Federico. Una riqualificazione del reato apparsa ai più incomprensibile, dato che – pur appunto nella scarsa chiarezza della questione – tutto sembrava propendere a favore dell’omicidio volontario definito in primo grado.

Il web si è da subito mobilitato per dare manforte alla – comprensibile – rabbia dei parenti di Vannini, in particolare della madre. Ad avere particolare eco è stata la petizione partita sul sito change.org, dal titolo “Giustizia per Marco Vannini”: diretta alla Procura della Repubblica di Civitavecchia e al Ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, ha raccolto – al momento in cui scriviamo, il giorno dopo essere stata lanciata – quasi 200 mila firme, ben oltre le 150 mila che si è posta come obiettivo. Ad avere grande seguito è stata poi anche la frase pronunciata dalla stessa madre di Marco, “Non nel mio nome”, di rimando al giudice che ha pronunciato la sentenza nel nome del popolo italiano: molti la stanno riprendendo, facendola seguire da hashtag o altri elementi che consentano di collegarla al caso di Vannini – #giustiziapermarcovannini è uno tra i più gettonati in queste ore su Twitter.

Anche il ministro Bonafede, a cui la petizione era indirizzata, ha usato i social per rispondere: in un video postato su Facebook ha infatti affermato di aver ricevuto tantissimi messaggi in proposito; ma ribadendo che il ministro della Giustizia non può e non deve entrare nel merito delle decisioni dei giudici. Ha però confermato di aver preso contatto con i genitori di Vannini e di volerli incontrare. Bonafede ha poi fatto riferimento anche ad un’altra questione “esplosa sui social”, ossia l’indignazione suscitata dal video della pronuncia della sentenza: in cui il magistrato, di fronte alle proteste esplose in aula ancor prima che lui finisse di darne lettura, afferma: «Se volete andare a fare un giro a Perugia – luogo in cui viene giudicato chi è accusato di un reato nei confronti di un giudice, ndr -, ditelo». Frase giudicata inaccettabile a furor di popolo, e anche dal ministro stesso, che ha assicurato che prenderà i provvedimenti del caso.

Più in generale, comunque, i post sul tema in queste ore non si contano; costituendo un altro esempio di come la questione sia assai più complessa e sottile della visione che derubrica il web a “tribunale popolare” buono al massimo per farci qualche articolo di costume, andando ad intersecarsi in maniera tangibile – e, si auspica, costruttiva – con il lavoro dei tribunali propriamente detti.

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