Caravaggio, Le ultime parole

Manca la voce quando si vede la tela ultima di Caravaggio, il Martirio di sant’Orsola. Mai nella storia dell’arte l’attimo della morte, in cui l’anima scivola dal corpo e col corpo, è stato individuato con tanto preciso sgomento. La sorpresa che sempre è il morire – per quanto ci si sia preparati – Merisi infatti non la descrive dall’esterno, nel consueto, anche crudele, realismo. Ora, quasi intuisse la propria fine improvvisa – siamo nel 1610, mancano pochi mesi – si pone lui stesso dentro al fenomeno anima che muore, e al suo mistero. Scarnificando la tavolozza in lampi di bianco e di rosso sul fondo nero, ponendo l’uno di fronte all’altro il carnefice e la vittima, ritraendo sé stesso nell’uomo che alza il viso a vedere il supplizio, egli ne dice i palpiti finali di timore, abbandono, pietà. Sentimenti che in una tela coetanea, il Davide e Golia (Roma, Galleria Borghese) sono ancor più marcati da un alone di tristezza desolata, con il colore ormai ridotto ad una larva. Il fatto è che in Caravaggio, da qualche anno – il 1608, l’anno di Malta – nasce un’accelerazione emotiva, una fibrillazione della fantasia che – anche al di là della propria vicenda umana di fuggiasco – provoca un brusco salto di qualità nella sua produzione. Come se dal viaggiare intorno alle cose e alle persone, egli stesse giungendo dentro alle cose e alle persone. In una parola, nel più profondo dell’anima. I lavori siciliani ne sono un esempio di poesia alta, e solenne. Il Seppellimento di santa Lucia (Siracusa) con la folla ridotta a larva – a lingua dell’anima – in un compianto unanime, mesto ma non disperato; la Resurezione di Lazzaro (Messina) con un muro altissimo fra lampi di luce, le Natività (Palermo e Messina) variazioni quasi monocrome sulla maternità, di una delicatezza inedita, vedono un artista nuovo, diverso. Libero da qualsiasi regola prospettica o cromatica, intento soltanto all’espressione, egli si concentra su gesti nudi, colori scarni, spazi neutri: il linguaggio della semplicità totale, della povertà. Riducendo al minimo gli strumenti, Caravaggio opera la scelta della verità, che è cosa ben superiore al realismo. Questo, descrive; la verità dona l’essenza. È così che si arriva al Martirio di sant’Orsola. Alla sua dimensione non solo individuale, ma corale. Perché, se è vero che la giovane, nell’attimo della morte, è sola con le mani a toccare la freccia che l’ha appena trafitta; pure, il gesto dell’anziano che tenta di pararle il colpo – inutilmente – sottolinea la partecipazione di un coro, di altri, al momento del transito finale. Come accadeva nelle opere siciliane e maltesi, ma in una visione ormai ricondotta all’essenziale, sempre Caravaggio affronta il dolore con il bisogno di comunicarne il peso, di condividerne la sospensione. Qui, raggiunge forse il punto più alto: gli basta un gesto per dire un coro, ed un movimento – lo scivolamento del corpo – per dire una persona. Lo spazio chiuso dà voce ad entrambi con una tale unità che pare tutto sia fermo, immobile. In verità, tutto continua. Solo che Caravaggio – come i grandi creatori – ha fermato il tempo. Per questo, la tela diventa l’immagine – bella e sconvolgente – del nostro vivere e del nostro morire.

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