Berlino espelle gli italiani disoccupati?

Un centinaio le lettere inviate in cui si "consiglia" un rimpatrio. Si tratterebbe di consigli di alcuni comuni tedeschi, ma il fatto rimanda alla questione incompleta dell’unificazione europea in campo fiscale e sociale.
Foto Wikipedia

La notizia era rimbalzata con un lancio Ansa dello scorso 22 settembre: gli italiani residenti in Germania, e rimasti senza lavoro oltre i 6 mesi previsti di sussidio di disoccupazione, sarebbero stati invitati a lasciare il Paese, in una sorta di schiaffo al principio di libera circolazione dei cittadini europei.

Una notizia che aveva fatto parlare il sottosegretario agli Esteri, Riccardo Merlo, di «atteggiamento molto grave da parte della Germania», che starebbe «colpendo un diritto fondamentale dei cittadini Ue».

Il tutto era partito da un servizio di Radio Colonia, emittente in lingua italiana, dal titolo “Inviti al rimpatrio”.

Questa trasmissione raccoglieva, tra le altre, la testimonianza di una donna che, rimasta senza lavoro in seguito alla terza gravidanza, affermava di aver ricevuto una lettera in cui le si davano 15 giorni di tempo per rientrare in Italia – sempre naturalmente che non avesse nel frattempo trovato di che sostenersi. Diversi media italiani avevano quindi ripreso la notizia, aggiungendo che il caso della signora non sarebbe stato isolato.

Come spesso in questi casi, tuttavia, la questione è più articolata; e infatti pochi giorni dopo Radio Colonia ha diramato una nota chiarificatrice, in cui si afferma che «purtroppo il nostro servizio andato in onda il 19.09.2018 ha provocato libere interpretazioni e conclusioni da parte di molti colleghi della stampa italiana, da cui prendiamo le distanze».

Radio Colonia ribadisce che «stando alle nostre stime, nell’arco di un anno (agosto 2017- agosto 2018), sono circa un centinaio le lettere recapitate ad italiani in cui si prospetta un eventuale rimpatrio. Il numero è circoscritto e non si tratta certamente di un fenomeno di massa».

La nota ricorda che «in base alla vigente normativa tedesca, dopo un anno di lavoro, si matura il diritto al sussidio di disoccupazione, che ha la durata di 6 mesi. Per altri 6 mesi, nel caso se ne faccia richiesta, si possono percepire prestazioni di sostegno sociale. Superato questo periodo, se non si risiede in Germania da almeno cinque anni, o si svolge una prestazione lavorativa di almeno 10,5 ore settimanali, non vengono più erogate prestazioni assistenziali».

Di conseguenza alcuni comuni hanno consigliato a coloro che non si trovavano più in presenza dei requisiti per ricevere sostegno sociale di lasciare il Paese, non avendo mezzi di sostentamento: una scelta che Radio Colonia giudica “discutibile”, ma comunque senza alcun valore di obbligo; ricordando anche che «degli oltre 700.000 italiani residenti in Germania, circa 70.000 percepiscono in modo pieno e legittimo un sussidio sociale».

I 15 giorni di cui la signora parlava, infine, sarebbero il lasso di tempo in cui si viene invitati a chiarire la propria posizione a fronte dei locali uffici del lavoro, dimostrando di essere quantomeno alla ricerca di un’occupazione.

Tutto bene quel che finisce bene, dunque? Sì e no, nel senso che esiste comunque una direttiva comunitaria, la 38 del 2004, che riforma la disciplina della libera circolazione del cittadini tra gli Stati membri; e che, pur garantendola, stabilisce anche che i singoli Paesi possono subordinare a specifiche condizioni relative ai sistemi di assistenza sociale – per non “pesare troppo” – la permanenza dei cittadini comunitari lì residenti per un lasso di tempo superiore a 3 mesi e inferiore a 5 anni.

Insomma, il vero nodo sta nel decidere se vogliamo andare anche verso un’autentica Unione europea del welfare; progetto certo ad oggi poco fattibile perché presupporrebbe una legislazione uniforme anche in materia di tasse e contributi, ma la cui esigenza inizia a farsi sentire.

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