Bella da far tremare: Africa

“Guardate q u e s t i capolavori senza preconcetti; dimenticate che si tratti dell’Africa “. Le parole di Bassanini, il curatore della mostra, suggeriscono in effetti l’atteggiamento più onesto per chi voglia godere di questi manufatti che prima ancora di essere maschere, saliere, cucchiai, pissidi, oggetti rituali, domestici o di caccia, sono “semplicemente” opere d’arte, semplicemente e terribilmente belle: di una bellezza che fa sparire nel pubblico sia l’imbarazzo dell’ignoranza che la pretenziosità di improvvisarsi etnologi o antropologi. Appena bagnate dalla luce, le opere emergono dal buio come bagliori che ammiccano dall’abisso; d’istinto si fa silenzio e gli occhi si incamminano in punta di piedi. Le prime sculture in terracotta presentano una sintesi ed una stilizzazione che di “primitivo” non ha davvero nulla. I bronzi lasciano sbalorditi. Conchiglie, animali, nani, cavalieri e teste di regine sono allo stesso tempo semplici e sontuosi, realistici e idealizzati; secondo i parametri occidentali non sarebbe improprio parlare di “classicità”, e non sorprende che all’inizio del secolo si sia ipotizzata una “colonia” di artisti greci spintasi fino alla regione di Nok, in Nigeria. Nel gallo, nel leopardo e nella testa di serpente la forma schematica si riempie di un’effusione decorativa; il piacere della varietà di texture oscilla tra il naturalistico e l’astratto con inaspettati inserti di ambiguità: le orecchie del leopardo così come le piume del gallo possono essere lette anche come foglie. All’improvviso la rappresentazione si fa più astratta; è l’arte dell’antichissima civiltà dei Dogon: le tante figure con le braccia alzate pietrificano lo spettatore come di fronte ad uno specchio intimo e profondo, senza luogo e senza tempo: tra i piedi fissi al suolo e le braccia alzate al cielo (o al vuoto?) il corpo si stende, si mostra, si pone in “essere”. A tratti la raffigurazione perde le sembianze esterne per trattenere solo quelle interne, e ci si trova di fronte ad un semplice corpo, quasi una forma, piantata a terra e protesa al cielo. La spiritualità astratta di queste piccole figure si fa quasi schiacciante nella monumentale “scala” ad intacche e nel “palo”; corpi sempre più piantati e sempre più sospesi in un tendere “oltre”; la forza e la terribilità spirituale è tale da far tremare. Ma, nonostante l’estraneità formale, anche qui l’impressione è quella di guardarsi dentro e di scoprire tremendamente vicino quell'”essere” tanto nostro e tanto altro da noi. Passando alla sezione degli avori il registro cambia drasticamente: lo spirituale espressionismo degli antichi regni cede il passo alla grazia e alla perizia tecnica profusa su cucchiai, saliere, pissidi e oliofanti da caccia. Profondamente scolpiti o appena incisi nell’avorio, i soggetti si presentano come meticci afro-europei. I motivi imposti dalle corti committenti si trasformano così in un fine bestiario allegorico che scava sia l’uomo che l’animale in un registro marcatamente espressionista. Altro brusco cambio di scena: Picasso, Modigliani, Brancusi, Matisse, Moore, ed altri artisti del Novecento alla scoperta dell’arte nera. Quel fenomeno tutto euro- peo che sembra esplodere di colpo e che va sotto il nome di “Primitivismo” è qui testimoniato da sculture e dipinti degli artisti accompagnate da opere d’arte africana che si attestano come fonti iconografiche e di ispirazione. A testimoniare una moda dilagante, le foto dell’atelier dell’artista europeo mostrano spesso sculture africane, maschere e feticci. È innegabile: l’Icaro di Matisse o la Musa addormentata di Modì conservano e metabolizzano la forza spirituale e la carica sintetica delle sculture africane con cui sembrano realmente dialogare, ma è altrettanto innegabile la tentazione di scivolare agevolmente su questa parentesi moderna per rispondere ad un richiamo magnetico: l’arte nera ammicca insistentemente al di là del muro dell’ultima sezione della mostra. Varcata la soglia, si fa di nuovo buio, e di nuovo si riaccende quella specie di bassa e profonda vibrazione che sale dallo stomaco; di nuovo un riemergere di feticci, idoli, reliquiari e maschere, e sono proprio alcuni gruppi di maschere a far sospendere il fiato e il tempo. È mitigata la terribilità delle grandi sculture Dogon ma si ripresenta la sensazione di imbattersi in un altro “sé”. Una nostra immagine speculare in cui gli accidenti della vita e del volto si sono asciugati, rapprendendosi in pochi tratti salienti: occhi, naso, bocca, o meglio: buchi, canali, e altri elementi che simboleggiano un qualcosa che va ben al di là dei semplici tratti fisionomici. Già di per sé molto ambigui, bocca o naso arrivano spesso a scomparire per lasciare il posto ad una rappresentazione aniconica nella quale siamo comunque spinti a guardarci. Sono piuttosto tratti somatici condensati, tanto più contratti rispetto ai canoni esteriori quanto più dilatati su una fisionomia interna, primig e – nia. È così che nella fissità e nella ieraticità raffinata e brutale di queste maschere possiamo trovare raccolto tutto ciò che eravamo, che siamo e che saremo, sempre. Passano i giorni ma dentro resta quel tremore basso e profondo. Quanto sono vere le parole pronunciate alla vernice da Omotoso Eluysemi, direttore del museo di antichità della Nigeria: “Questi oggetti non sono morti. Sono oggetti vivi”! È viva la loro forza, la loro luce, la loro tenebra; è viva la loro anima; è viva perché è anche nostra. Africa, capolavori da un continente, Torino, Galleria d’Arte Moderna, fino al 15/02/2004 (catalogo ArtificioSkira).

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