Atei devoti o atei cristiani?

Una riflessione sulla collaborazione tra credenti e non credenti, al di là di discutibili etichette

Niente è meglio di un ossimoro azzeccato, tipo giustizia ingiusta se si allude a un innocente condannato, o morto vivente nel caso di un povero scolaro che all’esame fa scena muta. Oppure silenzio assordante quando magari si vuol ironizzare amaramente sull’eclisse delle proposte di pace nella guerra in Ucraina.

E non parliamo dei poeti, che con questa figura retorica a volte ci hanno dato delle perle. Come Montale, degli tzigani è il rombo silenzioso; o Quasimodo, gli alberi… bruciano di neve; o anche Foscolo cantando il nulla eterno, di cui infatti alzi la mano chi se lo è scordato dopo il liceo!

Però da alcuni anni specie in Italia circola un ossimoro che secondo me non funziona, anche se continua ad avere una certa fortuna sui media e nei salotti, privati o televisivi che siano. L’ossimoro in parola perciò è noto, ed è atei devoti. Dove atei è l’aggettivo sostantivato che funge in questo caso da nome, mentre devoti, che di per sé può essere anch’esso un sostantivo, qui è aggettivo qualificativo a tutti gli effetti. Ma è il loro accoppiamento, cioè l’ossimoro nel suo insieme, a non funzionare, a non reggere a un’analisi semantica un po’ approfondita. Vediamo subito perché.

Prima di tutto chi sono, o sarebbero, gli atei devoti? Con questa formula, senza dubbio suggestiva e non priva di fascino (copyright cercasi, per quanto ne so io), si vogliono indicare gli intellettuali, gli autori, i maitres à penser o più largamente le persone che non credono nell’esistenza di Dio, non si professano cristiane, non vanno in Chiesa e così via, e tuttavia stimano e difendono convintamente la cultura e la tradizione religioso-cristiana.

E a volte perfino la Chiesa, nella sua dottrina e azione. La capiscono, hanno empatia per i valori cristiani dell’Occidente e in particolare dell’Italia, ci vedono l’identità delle nostre radici, la garanzia di un futuro e perfino la salvezza del nostro sistema politico basato su libertà e democrazia.

Gli atei devoti non disprezzano la Chiesa, spesso condividono certe posizioni e battaglie “cosiddette retrogade” (difesa della vita dal concepimento, ad esempio) e in genere sono più calmi e moderati dei “confratelli” agnostici o anticlericali che si abbandonano alle polemiche e a volte a qualche invettiva.

Ma per questo gli atei “rispettosi”, io li chiamerei così, si possono chiamare devoti? Lasciamo rispondere anzitutto il dizionario Oli-Devoto (coincidenza verbale non voluta!), per il quale il devoto è colui «che esprime la sua fede con l’assidua preghiera e la partecipazione seria e convinta alle pratiche e ai riti religiosi».

Ciò che l’ateo non fa e non pensa minimamente di fare, finché resta ateo. Quindi l’ateo devoto non esiste, è inconcepibile. Lo dice non solo il dizionario d’italiano ma pure per esempio colui che è considerato il caposcuola, il primo e principale degli atei devoti, e cioè il giornalista e scrittore Giuliano Ferrara, fondatore del quotidiano Il Foglio.

In una intervista di qualche tempo fa alla rivista Tempi, Ferrara dichiarava fra l’altro: «Io non ho la fede. E pur essendo culturalmente cattolico (il corsivo è nostro) non sono parte della Chiesa… la mia è una posizione teista… penso molte cose cattoliche senza essere cattolico». E concludeva: «Ma non sono ‘un ateo devoto’. Chi mi conosce sa che io sono il contrario di un ‘devoto’. Sono una persona disciplinata e razionale. Ma ‘devoto’ no».

Così il “portavoce” dei (cosiddetti) atei devoti; quanto agli altri, tipo il filosofo Marcello Pera, la compianta giornalista Oriana Fallaci o lo storico Ernesto Galli Della Loggia, presentati a volte col discusso ossimoro, non risulta abbiano mai accolto la cosa non dico con entusiasmo ma neanche a denti stretti.

E come Ferrara e gli altri personaggi citati penso si sarebbe regolato Benedetto Croce, nel quale i fan dell’acrobatica formula potrebbero benissimo vedere un, anzi il precursore più illustre degli atei devoti, con il suo noto saggio Non possiamo non dirci cristiani, pubblicato nel 1942.

Meglio dunque parlare di atei cristiani, o di non credenti cristiani, nel caso considerato, dove l’ossimoro però rimane. Il fatto è che tutte le etichette sono fragili, discutibili, semanticamente insignificanti e a volte ridicole.

Su questo tema anzi non servono proprio, perché sulla realtà e i meriti del contributo cristiano al cammino della storia, alla crescita di cultura-società e alla progettazione del futuro, parafrasando Croce, non possiamo non dirci (tutti) concordi. Credenti e non credenti, cristiani e no, non osservanti e devoti.

In ogni caso, forse possiamo concludere che, comunque si vogliano chiamare, l’importante è che credenti e non credenti siano entrambi pronti ad aprirsi-dialogare-lavorare insieme per costruire un mondo più pacifico, giusto e solidale.

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