Aspettando Godot, tra sarcasmo e levità

Il regista greco Theodoros Terzopoulos mette in scena il capolavoro di Beckett, l’infinita rappresentazione della vita. A Cesena e in tournée
Ph. Johanna Weber

Due vagabondi, Estragone e Vladimiro, aspettano eternamente l’arrivo salvifico di un misterioso signor Godot, il quale rimanda di giorno in giorno la sua venuta con un messaggio fatto recapitare da un ragazzo. Nel luogo deserto dove si trovano, con solo un albero, arriva un feroce padrone di nome Pozzo, il quale, lungo la strada, frusta il suo servo Lucky tenuto al guinzaglio, che gli porta i bagagli. Non succede nient’altro, se non un ripetersi vano di parole.

Ph Johanna Weber

Nella commedia molto dipende dal concatenarsi delle battute e controbattute instaurate dai personaggi, che devono susseguirsi secondo il ritmo imposto dalla bacchetta del regista. In questa messinscena di Aspettando Godot di Samuel Beckett, del greco Theodoros Terzopoulos, la favola beckettiana si dispiega in tutta la sua terrificante “proverbialità”, e, insieme, con una freschezza, una limpidità, una corposità di dettagli che danno un risalto nuovo e in qualche modo originario allo spessore umano, alla viva e dolente quotidianità in cui è ritagliata la macchinazione allegorica del testo. Testo che, ricordiamolo, si consuma nell’attesa di qualcosa che non si sa, di qualcuno che non viene, col suo tempo dilatato, con le sue pause, la dialettica fra i personaggi spinta all’estremo, il finale aperto che suggerisce un’eterna, tormentosa ripetitività.

Terzopoulos fa muovere i personaggi «in una zona grigia – come egli ha dichiarato –, in un paesaggio del nulla, quello dell’annientamento dei valori umani. […] Il sarcasmo alla ricerca di una fine che non ha fine è l’espressione dominante dei loro esercizi di sopravvivenza». L’emblematica scenografia dello stesso Terzopoulos cela la croce di due simmetrie, sia orizzontale che verticale, nella quale possiamo intravedere il rapporto tra uomo e divinità. «Secondo te, Dio mi vede?», è una delle domande che Estragone rivolge a Vladimiro, accanto alla ripetuta affermazione che «L’uomo è un niente, niente, niente»: interrogativi e riflessioni, insieme ad altre, che compongono la sarcastica, inquietante, eterna parabola della vita secondo Beckett. «È il tentativo di comunicare e coesistere con l’Altro dentro di noi – dichiara nelle sue intenzioni registiche Terzopoulos –, quest’area buia e imperscrutabile densa di desideri repressi e paure, istinti dimenticati, regione dell’animalesco e del divino, in cui dimorano la pazzia e il sogno, il delirio e l’incubo».

Ph Johanna Weber

Una grande parete-cubo, un muro, con quattro quadrati divisi da una sottilissima fessura di luce che richiama il segno di una croce, si aprirà e chiuderà svelando piani, botole e cunicoli. Sul piano, in orizzontale, impegnati nei loro dialoghi “assurdi”, tra risate e sproloqui, insulti e minacce, sono distesi i due barboni, quasi fossero tumulati dentro una bara, rinchiusi in un bunker o allertati in trincea; sopra di loro, in verticale, scende una vera croce dalla cui sommità, attraverso un buco, appare il ragazzo ad annunciare il rinviato arrivo di Godot. Sempre in posizione verticale, fa ingresso uno sbraitante Pozzo. E sotto, a terra, sbuca il suo schiavo, oggetto di umiliazioni e angherie. È l’unico a non parlare, balbuziente si esprime solo con versi animaleschi e con gesti compulsivi. Tra suoni di sirene, di spari, di bombe che si odono a intervalli, di canti celestiali, note di violino e di bandoneon, e di altre tracce sonore (di Panayiotis Velianitis), tutto è reso plastico e visuale da altri elementi e oggetti evocativi, possibili di molti simboli e interpretazioni. Come la piccolissima pianta secca di bonsai illuminata in proscenio che sostituisce il fatidico albero di Beckett; la sfilza di coltelli sospesi a un filo che scendono dall’alto, avvicendati, in ultimo, da dei libri aperti e insanguinati, sangue di cui portano il segno anche i personaggi. E poi quel frugare dentro la scarpa, il cercare qualcosa internamente al cappello e tanto altro ricercare e dire aspettando il misterioso signor Godot. Che anche oggi non è arrivato.

Terzopoulos ha inciso un’ossatura solida ad uno spettacolo che ha improvvise aperture verso la platea quando i protagonisti vengono verso la ribalta e sembrano rivolgersi a un “altro” che non c’è. E ha puntato molto, come è sua tradizione, sugli attori, encomiabili tutti, con al centro la coppia Enzo Vetrano e Stefano Randisi (Estragone e Vladimiro), e Paolo Musio (Pozzo), Giulio Germano Cervi (Lucky) e Rocco Ancarola (il ragazzo).

“Aspettando Godot” di Samuel Beckett, traduzione Carlo Fruttero, regia, scene, luci e costumi Theodoros Terzopoulos, musiche originali Panayiotis Velianitis. Produzione Emilia Romagna Teatro ERT / Teatro Nazionale, Fondazione Teatro di Napoli – Teatro Bellini in collaborazione con Attis Theatre Company. A Cesena, Teatro Bonci, dal 18 al 21 gennaio, e in tournée a Cagliari, Teatro Massimo, dal 31 gennaio al 4 febbraio; a Prato, Teatro Metastasio, dall’8 all’11 febbraio; a Bologna, Arena del Sole, dal 15 al 18; a Bari, teatro Piccinni, dal 22 al 25.

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