Apple. Pagare le imposte dove si guadagna, non solo in Irlanda

L’elusione fiscale delle multinazionali è all’origine dell’iniqua concentrazione della ricchezza in poche mani. I miliardi da versare sono molto di più di quelli richiesti dall’autorità Ue per la concorrenza. Silenzi e omissioni della Commissione europea
Ansa APPLE

L'ingiunzione alla Apple da parte della danese Margrethe Vestager, commissaria per la Concorrenza dell'Unione europea, di versare al governo irlandese 13 miliardi di euro per imposte non pagate negli ultimi anni, pone in primo piano una situazione di ipocrisie e furbizie fiscali intollerabile nell'Unione europea, ma suggerisce di porvi rimedio in un modo altrettanto inaccettabile.

 

Le imposte vanno pagate dove si forma il reddito dell’impresa, per gli smartphone e i computer laddove vengono venduti, o semmai dove vengono costruiti: invece esse si pagano nella nazione dove costa meno, in cui l’azienda ha posto la sede fiscale. Reagendo a questo andazzo, mesi prima dell'ingiunzione della Vestager, l'Agenzia delle imposte italiana ha contestato questo fatto proprio alla Apple, inducendola a versare 318 milioni di euro a fronte dei profitti ottenuti in Italia negli anni passati.

 

La Vestager, commissario alla Concorrenza, chiede di versare 13 miliardi all’Irlanda perché per un accordo particolare col governo ha versato solo lo 0.05 per cento dei profitti, anziché il 12.5 per cento richiesto ai suoi concorrenti: se la Apple accettasse di pagare, si avallerebbe l'elusione fiscale del corrispondere a un Paese imposte per redditi realizzati altrove, perché per attirare investimenti esteri le sue imposte sul reddito sono state ridotte alla metà di quelle degli altri Paesi europei.

 

L’aver accettato un pagamento del solo 0.05 per cento purché Apple investisse in Irlanda, è doppiamente iniquo: oltre a non rispettare la concorrenza interna, è stata offerta una via legale per privare delle risorse di cui avrebbero diritto gli altri Paesi dell'Unione, quelli che le offrono ogni giorno un ambiente sicuro e stabile in cui fare affari. Un comportamento antipatico, perché esercitato verso Paesi che, negli anni scorsi, hanno finanziato l’Irlanda per sostenerne il sistema bancario in crisi, e che ancor oggi le versano, ogni anno, 138 milioni di euro di contributi in più di quanti essa ne versi all'Unione.

 

La Verstager avrà impugnato l’unica arma di sua competenza, magari non avendo ottenuto udienza dagli altri membri della commissione nella proposta di imporre a tutti i Paesi europei di esigere dalle multinazionali le imposte eluse. Nel caso Apple non si tratta solo dei 13 miliardi calcolati sul 12,5 per cento delle imposte irlandesi, ma molti di più, e cioè quelli calcolati su quanto dovuto nei vari Paesi in cui guadagna, compresi gli Stati Uniti che protestano in suo favore.

 

Non è chiaro perché la Commissione europea e vari Stati siano inerti: Junker è stato primo ministro del Lussemburgo, che in merito ha qualche scheletro nell’armadio, l’Olanda e il Belgio non fanno meglio, a Cipro non si portano più soldi perché si teme la bancarotta.

 

Che la ricchezza trattenuta indebitamente dalle multinazionali debba tornare agli Stati per finanziarne i servizi senza ulteriore indebitamento non è solo un problema dei ministeri delle Finanze. Ci coinvolge tutti: le elusioni fiscali delle migliaia di multinazionali sono in buona parte responsabili dell’impoverimento del 90 per cento degli abitanti del mondo e della concentrazione della ricchezza nel rimanente 10 per cento.

 

A chi ancor oggi sostiene che la ricchezza va lasciata a chi sa far crescere l’economia e far innalzare il livello di vita di tutti, va ricordato che questa utopia non si è mai realizzata; se si va poi a vedere come le multinazionali utilizzano questi profitti, si constata che la maggior parte non li impiegano per finanziare innovazione o ricerca o investimenti.

 

Ci sono eccezioni, ma, di solito, diventa sempre più conveniente mandare in giro per il mondo cacciatori di talenti capaci di assicurarsi le innovazioni realizzate magari con tanti sacrifici nelle piccole aziende, le poche che ci riescono, prendendone il controllo con poca spesa, perché esse non avrebbero i mezzi e le opportunità per fare fruttare a livello mondiale il loro prodotto innovativo. Una parte di quella ricchezza iniqua viene utilizzata dai manager delle multinazionali per far comperare dalla loro azienda le sue azioni, in modo che il loro valore e i dividendi per i soci aumentino; i loro premi milionari di produzione sono legati proprio al valore delle azioni e la ricchezza sottratta alla comunità, per magia, diventerà loro.

 

Solo la politica può reagire: i movimenti di opinione devono aiutare chi governa, sensibile ai vantaggi che l’amicizia con queste multinazionali può portare nel breve termine al loro successo; occorre obbligarli a reagire a queste enormi elusioni fiscali che accrescono il divario tra i pochi ricchi ed i tanti poveri senza produrre lavoro.

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