Alexander Toradze ritmo e passione

Roma, novembre, Auditorio di Santa Cecilia. Chiuso energicamente il Concerto per pianoforte e fiati di Stravinskji, Toradze prende per mano, come un fratello, il direttore giapponese Yutaka per raccogliere insieme lo scrosciare degli applausi. Un gesto di calore e di sensibilità tipico dell’artista georgiano, un cinquantenne vigoroso e ardente. A vederla così vivace, sembra che lei si diverta parecchio con la tastiera, maestro. “Certo, mi piace molto suonare. Questo concerto poi è fra i meno conosciuti, se lo paragoniamo ai lavori per piano di Bartòk, Ravel o Rachmaninov. È un peccato, però noi due (Toradze e il direttore, ndr) abbiamo dato il nostro piccolo contributo perché si tratta di una musica bellissima”. Lei predilige autori come Stravinskji e Prokof’ev. Di quest’ultimo ha pure inciso i “Cinque concerti per piano e orchestra” con la direzione di Gergiev e complessi del Kirov di San Pietroburgo. “Effettivamente, la storia della mia vita dice che ho suonato moltissimo questi due compositori. Però anche quando eseguo i lavori di Rachmaninov ci metto altrettanta passione. Infatti, il mio rapporto con la musica è di passione, non riesco a vederlo diversamente. Se non fosse così, credo che non mi interesserebbe”. Ma questo le capita con tutti gli autori o prevalentemente con quelli del Novecento? “Certo, ce l’ho specialmente con i musicisti del XX secolo. Negli ultimi anni, mi son reso conto che forse questo mio coinvolgimento non sarebbe gradito oggi ai compositori, anche se credo che quando essi hanno ideato le loro musiche e le hanno suonate per la prima volta non potevano non esserne coinvolti. A mio parere, ci sono due modi di suonare: suonare sé stessi o suonare il compositore: entrambi non sono giusti. Per me, l’approccio ideale per affrontare la musica è che la visione dell’autore e quella dell’interprete siano in qualche modo combinate, diventino una simbiosi per cui non sia possibile riconoscere dove c’è l’uno e dove c’è l’altro. Credo che sia l’unico modo di riportare in vita il compositore: penso che, per quanto abbiamo cercato di fare stasera, in questi venticinque minuti Stravinskji sia stato vivo qui a Roma”. Sempre a proposito di Stravinskij, e del rapporto fra le arti, lei pensa a qualche artista figurativo del Novecento che sia in qualche modo vicino al suo mondo spirituale? “Certo, Picasso; ma anche Kandiskji o Mirò. E poi non dimentichiamo che nel 1924, quando il Russo compone il concerto di stasera, il cinema ha già fatto dei passi importanti. In questo pezzo infatti c’è un approccio “cinematografico” alla musica, oltre ad una componente religiosa molto forte: una doppia visione della religione cristiana, l’ortodossa e la cattolica, che sono insieme “. Qualcuno spesso parla della morte della musica classica in un futuro molto vicino. Lei che ne pensa? “È come se mi si chiedesse se nel XXI secolo ci sarà ancora la vita. Certo di sì, perché la musica che noi diciamo “classica” quand’è nata era legata alla vita del tempo: la gente vi si divertiva, la ballava… Con lo sviluppo del XX secolo ha assunto un ruolo cerebrale, dedicato a certi ambienti. Ecco, quello che io cerco di fare è di portarla ad un maggior coinvolgimento con la gente, perché il destino di una espressione troppo intellettuale è quello di allontanarla dal pubblico: diventa difficile da capire, la gente non la segue più”. Però, almeno in Italia, anche grandi musicisti lamentano la fuga dei giovani dalle sale dei concerti… “Credo che, per prima cosa, tutti noi abusiamo della musica classica. Guardi quanta se ne produce ogni giorno: dobbiamo anche farlo, è un obbligo morale, pure si devono mantenere in vita le istituzioni, come Santa Cecilia o le orchestre che puntano a “vendere” – in modo legittimo, talvolta anche in maniera illegittima – il loro “prodotto”. Ma io devo dire che è già un miracolo la quantità di musica classica che si riesce a produrre: oggi, martedì, pensi a quanti concerti si danno, solo in Italia. Non cre- do che oggi sia stata prodotta la stessa quantità di musica jazz o pop: perciò godiamo di un’ottima salute! Quando leggo alcuni libri che prospettano la morte della “classica”, non ci credo: forse moriranno i parassiti che girano intorno alla musica: amministratori, grandi manager che non la conoscono o la odiano… Quando questa gente se ne andrà, resterà la Musica: perché come è impossibile non andare ad ammirare l’architettura “materiale” della basilica di San Pietro, così non si può non aver bisogno dell’architettura “spirituale” che è la musica…”. La sua grande passione, soprattutto quella più vicina a noi. Un amore nato in casa, suppongo. “Io sono nato a Tbilisi, mio padre era compositore ed eseguiva lavori di Debussy, Ravel, Bartòk e altri. Ho visto queste partiture sul suo pianoforte prima di quelle di Mozart o Beethoven. Per cui già da ragazzino lavoravo con le dissonanze, per me era un orrore suonare un Notturno di Chopin… A scuola, un giorno, dopo aver sentito per tre volte la Sesta Sinfonia di Beethoven, ho chiesto al professore perché invece non suonassimo qualcos’altro, magari la Quinta di Prokof’ev. Di conseguenza, fuori dell’aula, c’è stata, presente mio padre, una lunga discussione con l’insegnante: uno scandalo. Ma a lui Prokof’ev era sconosciuto, mentre io l’avevo sentito il giorno prima… Questo, per dire che sono nato con le dissonanze e il senso del ritmo. La musica folk georgiana del resto è fenomenale, ricchissima ritmicamente: fu una scoperta anche per Stravinskji negli anni Sessanta. Io vivo da vent’anni in occidente, ma sono ortodosso, la mia natura è legata a questi ritmi musicali. Stravinskji ad esempio mi dà la possibilità di esprimerli, perché io metto la mia vita nel pezzo che eseguo. Così Stravinskji manda il suo messaggio attraverso me ed io il mio attraverso di lui: in questo modo tutti e due siamo vivi”. Lei è da anni sulla scena internazionale. Quali sono le doti richieste ad un pianista che è, per sua natura, un interprete? “Guardi, la mia è una professione orribile. Perché il pianista, che è un ricreatore, si trova con una storia dell’interpretazione alle spalle già molto abbondante. Perciò, deve superare il complesso di sentirsi cittadino di seconda classe nel mondo musicale, mettendo tutta la propria creatività nel brano che interpreta, come se prima non fosse mai stato ascoltato; anche se certe interpetazioni sono ancora ineguagliabili, come il Quarto Concerto di Rachmaninov suonato da Michelangeli. A questo riguardo, leggo i critici che dicono di me: “Ha suonato bene, ma si è preso troppe libertà, come se quello non fosse Rachmaninov”. Per me invece è la critica migliore: se dovessi suonare come Michelangeli, sarebbe un doppio suicidio, il mio e quello di Rachmaninov. Però, bisogna essere molto forti interiormente. Uno scrittore – Saint Exupéry – diceva che in ognuno c’è una piccola parte dell’anima di Mozart che il tempo e le circostanze hanno ucciso. Per lui, Mozart era il simbolo di qualcosa di puro, chiaro, divino. Molte cose nella vita spingono a dimenticare questo elemento: si tratta di tirarlo fuori. Anch’io ho il mio piccolo Mozart, un milligrammo, forse. L’importante è che questo piccolo grammo di spirito venga fuori: allora c’è un pezzo “nuovo”. Che è quello che abbiamo cercato di dare con il direttore Yutaka, con il quale c’è stata una grande comunione di intenti, con uno spirito molto vicino l’uno all’altro. Spero che questa nostra interpretazione resti per qualche tempo nella memoria del pubblico che ama questa musica: perché, se fosse rimasto indifferente, sarebbe la morte. “Ecco, essere interprete vuol dire non aver paura: si può cadere, forse spesso, ma quando si riesce a dare qualcosa di “nuovo”, allora è tutta un’altra cosa”.

I più letti della settimana

Chiara D’Urbano nella APP di CN

La forte fede degli atei

Edicola Digitale Città Nuova - Reader Scarica l'app
Simple Share Buttons