Aleppo: c’è l’acqua non la pace

L’esercito governativo ha ripristinato anche l’elettricità e la gente torna nel centro della città e nella zona est dove avevano attività, negozi, luoghi di preghiera. Ad Aleppo Est è tutto distrutto, ma non ci si arrende: si progetta già il restauro dell’antichissima moschea omayyade e del suo minareto.

Samir (chiameremo così un giovane uomo di Aleppo) non trattiene le lacrime davanti agli archi crollati che delimitavano l’ingresso del suo negozio nel centro della città. Gli è rimasto solo questo dell’eredità lasciatagli dal padre: era un’attività di generazioni ed ora tutto è annullato. Come lo sono le case, le attività commerciali, le strade.

La guerra, la furia degli uomini e le bombe (tutte, sia i missili dei ribelli che quelle sganciate dagli aerei), non hanno risparmiato nulla. Anzi no, qualcosa è rimasto in piedi: l’ospedale dei Caschi bianchi (the white helmets), accanto al centro operativo di Al Nusra, anche se adesso si chiama Jabhat Fatah Al-Sham e si è reso autonomo da al Qaeda, pur restando jihadista. Le riprese di un giornalista francese, ma soprattutto le voci di chi in quella parte di città ha vissuto da prigioniero per mesi, non sono molto tenere nei confronti dei Caschi bianchi, premiati anche durante la notte degli Oscar per il documentario che ne filmava le attività, eppure legati a doppio filo a una delle fazioni più intransigenti del jihadismo islamista.

Serviva davvero il palco di Hollywood a sancirne la legittimità, smentita poche ore dopo dai documenti ufficiali? Solo perché fanno parte di uno dei gruppi che si oppone a Bashar al Assad, e quindi sostenuto dalla coalizione a guida statunitense? L’associazione a cui fanno capo i Caschi bianchi è la Syrian Civil Defense, fondata a Londra nel 2013 con fondi (100 milioni di dollari) statunitensi, europei e britannici. Avrebbero addestrato duemila volontari in Turchia con l’appoggio del Syrian National Council, il coordinamento dei gruppi di opposizione ad Assad, con sede a Istanbul (non a caso).

 

Visitare ad un mese dalla liberazione di Aleppo le stanze e i cortili del centro operativo dei Caschi bianchi, tra scatole di medicinali abbandonate, lettighe sul pavimento e con le insegne del gruppo siriano di al Qaeda sulle pareti, la dice lunga sulla complessità di questa guerra e sulle operazioni di controinformazione messe in atto dai tanti eserciti (governativi e mercenari), che si stanno combattendo sul terreno siriano.

«Perché questa non è una guerra civile, qui ci sono molte altre volontà e interessi». C’è amarezza nella voce di Samir, e c’è dolore. Ma c’è anche la gioia per l’acqua tornata a scorrere dopo mesi, perché «l’esercito ha ripreso a controllare la centrale idrica sull’Eufrate, le centrali elettriche e ora anche la corrente non è più fornita solo dai gruppi elettrogeni a petrolio». La sospirata normalità è raccontata in punta di piedi. L’attacco improvviso ad alcuni quartieri di Damasco nei giorni scorsi e la battaglia agguerrita in un villaggio delle vicinanze (a Nord di Hama) fa temere che la lotta si sia solo spostata, con il ritorno ai giorni bui dei bombardamenti. «Eppure le armi – continua Samir – non sono mai mancate e continuano a non mancare, anche quando ufficialmente c’è un embargo. Da dove arrivano? Come attraversano i confini?». Le domande non hanno fine, come non hanno fine le macerie di Aleppo Est. Dei bellissimi minareti è rimasto ben poco, nulla delle opere d’arte trafugate, che erano e sono le radici culturali del popolo siriano. Non pochi aleppini che vivono ad Ovest non se la sentono di andare a vedere le macerie della parte Est. Troppo doloroso. Una buona notizia è il progetto del restauro già avviato per la grande moschea.

 

Ad Aleppo non si combatte più, ma poi arrivano le notizie degli amici di Damasco, ancora sotto i mortai e sai che la pace non c’è, non è un bene di tutti. «Due sere fa – racconta Samir – un amico militare si trovava in caserma quando una bomba è entrata dalla finestra dell’ufficio. Lui era protetto da un muro e si è salvato, ma i suoi compagni sono stati colpiti dalle schegge. Oggi dovrà tornare a rischiare la vita nello stesso posto». Il governo ha intanto aperto i cosiddetti “tavoli della riconciliazione” in tante città tentando di avviare un dialogo tra le parti militanti e con le popolazioni sul territorio, di capire le richieste degli avversari. Ma finora i risultati sono stati scarsi: paura, troppi interlocutori e ancora bombe.

La diplomazia si prepara all’ennesimo incontro di Ginevra. Samir sospira perché la pace va costruita su queste terre che «vivevano in pace, prima del 2011. I problemi erano grossi, ma nessuno pensava a una tale catastrofe». E intanto proprio a marzo inizia il sesto anno di guerra, senza ancora intravvedere un anno di pace.

 

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