Al servizio dell’umanità

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Dal focoso don Camillo degli anni Cinquanta al pacifico don Matteo dei nostri giorni le figure di sacerdoti, insieme a quelle di medici e carabinieri, sono spesso state tra quelle che hanno dominato il piccolo schermo. Fiction, ovvero storie inventate, mentre la realtà, intanto che scriviamo, ci parla di un sacerdote ucciso in Turchia, don Andrea Santoro e di un altro trucidato in Burundi, il gesuita padre Elia Koma, solo gli ultimi di una catena di martiri che nel 2005 ha raggiunto il numero di 26. Nell’immaginario collettivo quella del sacerdote è, in genere, una figura positiva che inevitabilmente subisce uno scossone ogni qualvolta emerge il caso di un prete pedofilo o indagato per altri reati. Certo, non si può negare che tali vicende dolorose mettono a nudo un dato di fondo: anche i preti sono uomini e peccatori. Ma i primi a saperlo sono proprio loro, coscienti della propria fragile condizione umana sulla quale però si innesta una chiamata di Dio che trascende questa stessa umanità. Che ne sarebbe di me? E di me? E di me?, dicono ammalati in cerca di conforto, giovani bisognosi di ascolto, anziani alle prese con la solitudine, orfani alla ricerca di una famiglia… E non è solo lo spot tv dell’8 per mille. Con un minimo di buon senso si può immaginare che ciò corrisponde a verità in innumerevoli casi. Quello sacerdotale è un mondo che inevitabilmente riflette la società in cui vive. La Cei ha di recente promosso uno studio socio demografico sul clero presente nel nostro paese. L’analisi, realizzata dalla Fondazione Agnelli, ha evidenziato dei dati interessanti: l’aumento dell’età media, ad esempio, che si attesta sui 60 anni con punte di 64,2 nelle Marche e di 54, 5 nel Lazio; la densità del clero diocesano che è di 0,56 per mille residenti, quasi pari a quella degli odontotecnici (0,60) e inferiore a quella degli psicologi (0,66). In aumento la presenza dei preti diocesani nati all’estero, 1500, cioè il 4,5 per cento del totale che è di circa 33 mila. La maggior concentrazione dei non italiani, (oltre il 10 per cento), è rilevata in Toscana, Lazio, Abruzzo-Molise e Um- bria. La regione con meno presenza straniera è la Lombardia con lo 0,9 per cento. Tra i seminaristi il 36 per cento ha frequentato l’università e il 73 per cento proviene da un’aggregazione ecclesiale. Fin qui le cifre che riguardano l’oggi. Ma lo studio era stato pensato in vista del domani, di quella che sarà la vita della chiesa di cui i sacerdoti sono una componente importante, anche se non la sola, né la più numerosa. E per questo siamo andati in un seminario un po’… particolare, quello di Roma che per sua tradizione accoglie giovani da ogni parte del mondo. L’ambiente è cordiale, nient’affatto austero come si potrebbe immaginare; gioiosi i seminaristi che incontriamo; disponibili i responsabili. Primo fra tutti mons. Vanni Tani (vedi box), rettore da tre anni e per 14 anni direttore spirituale, che mi introduce nella vita di questo seminario dove vivono attualmente 119 seminaristi di cui 20 non italiani di 9 nazioni, 44 di altre diocesi d’Italia, 55 della diocesi romana. Ne incontriamo alcuni. Filippo Martoriello di Roma ha 37 anni, diventerà sacerdote il prossimo 7 maggio. La sua, come si intuisce, è una vocazione adulta, maturata in parrocchia. Ho messo un paio d’anni prima di decidermi, volevo essere sicuro. I primi tempi in seminario non sono stati facili, perché in effetti la vocazione un po’ spaventa, ero irrigidito, volevo condurre io il gioco, ma negli anni ho preso coraggio, e in questo è stato importante il gruppo con cui ero stato quell’anno, dove c’erano dei ragazzi molto in gamba che senza dir nulla ma con la loro testimonianza semplice mi hanno aiutato molto. Dall’altro lato ho capito che bisognava deidealizzare la figura del sacerdote. Io avevo visto sempre accanto a me dei preti molto bravi, avevo visto il ruolo, mai l’uomo e invece la scoperta che tramite la mia esperienza facevo della mia umanità, dei miei limiti, dei miei tempi, mi ha portato ad accogliere tutto questo in maniera tranquilla. Io amo molto la chiesa anche con tutte le sue difficoltà e contraddizioni. Quello che spero come prete è di essere testimone semplice dell’amore di Dio per noi e di esserle fedele fino in fondo cercando di servire la verità e coloro che mi saranno affidati. Andrea Cola, invece è giovanissimo. Ha 21 anni ed è al suo terzo anno di seminario. Anche lui è un romano. Già dalla seconda media avevo l’idea di farmi prete – mi racconta -. Nella mia famiglia – una sorella e due fratelli – nessuno era praticante, solo la mamma andava un po’ più spesso in chiesa. Penso che, come la maggior parte dei ragazzi dopo la cresima, avrei smesso di frequentare la parrocchia, senonché un giorno mentre aspettavo il sacerdote per confessarmi una signora mi ha proposto di entrare nel gruppo dei ministranti. Non l’avevo mai pensata questa cosa, però, siccome c’era un mio amico ho deciso di accettare. Il mio amico adesso non va più a messa mentre io mi son ritrovato in seminario. Vedevo che servire la messa mi piaceva, mi riempiva il cuore di gioia, di pace. Così ho cominciato a frequentare un gruppo giovani della parrocchia e poi facevo visita a qualche persona anziana del quartiere. Intanto si iscrive al tecnico industriale con specializzazione in informatica. Al secondo superiore sono stato fidanzato sei mesi con una ragazza e per me è stata un’esperienza utile lungo il percorso: non è che mi facevo prete perché ero represso in qualche altro lato della mia vita. La cosa che mi spingeva tanto in questa scelta era ed è la voglia di donare la mia vita agli altri, di non tenerla per me. In quanto al modello di chiesa dice: A Colonia il papa ha detto che la chiesa si può criticare molto perché la realtà del peccato c’è anche in essa, quindi alcune volte io ci ho pensato a tutto questo. Come potrò essere ministro di Dio con le mie imperfezioni, mi chiedo. Ma è Dio che lavora nella nostra umanità ed è l’unica cosa vera, perché tutti coloro che mostrano dei modelli perfetti nella vita ti stanno prendendo in giro. Nella chiesa io ho trovato la possibilità di sbagliare, ma di potermi rialzare e continuare il mio percorso, perché la chiesa porta l’amore di Dio alle persone. L’immagine di prete che mi faccio è quella di uno che sta in mezzo alla gente, in giro per il quartiere a conoscere il giornalaio, il panettiere, la gente che va a fare la spesa nella sua quotidianità, e lì portare l’annuncio evangelico. Alexis Urpin viene dal Venezuela, è a Roma dal settembre del 2000. Dopo un lunghissimo distacco dalla chiesa intorno ai 24 anni ho conosciuto degli amici molto coinvolti nella vita parrocchiale e che mi hanno invitato a un ritiro dei Cursillos. Ero andato per farli contenti in modo che avrebbero smesso di insistere, ma avevo detto loro che non mi avrebbero mai visto fare le stesse cose che facevano loro. Dopo il ritiro invece è avvenuto in me un profondo cambiamento. Certo è che dopo due mesi mi sono ritrovato a frequentare la parrocchia, avevo riscoperto la preghiera e, senza che io me ne potessi accorgere, batteva dentro di me un’inquietudine alla quale non volevo fare attenzione. Questo per due anni, dal ’94 a parte del ’96, finché ho deciso di fare il grande passo. Non potevo continuare a nascondere quello che sentivo, e così, con l’aiuto di un sacerdote a 26 anni sono entrato in seminario. L’impatto con Roma è stato sconvolgente: ambiente nuovo, lingua nuova, consuetudini diverse, un cambiamento radicale. Ma ho imparato a custodire il dono di Dio, quella vocazione che io non avevo chiesto, ad alimentarla . Fino a diventare diacono e, prossimamente, sacerdote. Ma in seminario si trovano anche artisti. Come Sergio Rossini, della diocesi di Terni, una passione per la musica che lo ha portato a donarsi a Dio. Da piccolo frequentavo la parrocchia, perché vengo da un paesino dove vuoi o non vuoi dalla parrocchia ci si passa, ma lì non c’erano movimenti, gruppi giovanili. Già alle scuole superiori mi rendevo conto che questa chiamata era sempre più forte, più frequente fin quando sono arrivato a dire a un sacerdote venuto da poco: Io mi vorrei far prete. Non mi aspettavo queste parole da te in questo momento, ma sapevo che prima o poi me le avresti dette, la sua risposta. Avevo 16-17 anni. Ho frequentato ragioneria e poi c’è stato l’incontro con la musica che mi ha aperto una volta per tutte nei confronti di Dio. La musica rispecchia bellezza e man mano mi sono reso conto che bello come aggettivo non bastava più, bisognava andare oltre, alla Bellezza soggetto. Dopo essermi diplomato al conservatorio in flauto, composizione e direzione d’orchestra, a 27 anni sono entrato in seminario. Sicuramente tutto il tempo che avevo prima per la pratica quotidiana della musica non ce l’ho, ma ci sono altre cose che riempiono di più. Torna in mente un episodio raccontato da un padre spirituale di un seminario minore dell’Austria. Un giorno un seminarista sedicenne mi viene incontro nel corridoio, ci salutiamo e si instaura un breve colloquio. Padre – mi dice -, lei certamente ha una donna!. Come mai ti sei fatta questa idea?, gli chiedo. Ed egli: Perché la vedo sempre così felice, e questo già di buon mattino quando viene nel refettorio. Non credi che Dio mi possa fare così felice?. E quando invece il sacerdote diventa anziano e si ammala? Dove va a finire la gioia? Esperienze di accoglienza ci dicono che nulla cambia se ci sono altri confratelli che insieme alla comunità sanno far casa a chi è più avanti negli anni. Anche questa, che sarà una situazione sempre più frequente, troverà soluzione in quella chiesacomunione che Giovanni Paolo II ci ha lasciato da realizzare sempre di più. Ne parleremo ancora in occasione del convegno Chiesa oggi del prossimo aprile. UNA SCUOLA DI VITA Intervista a mons. Vanni Tani, rettore del seminario romano maggiore. Anche se l’edificio del seminario del papa è imponente, la struttura non è da grandi numeri, ma articolata in classi e in piccoli gruppi composti da 6-7 seminaristi, dal più giovane al diacono. In queste piccole famiglie quotidiane c’è un’accoglienza dei nuovi in modo che soprattutto gli stranieri non si trovino smarriti, si sentano subito accolti – mi dice il rettore -. Viene così spontaneo mettere in comune le ricchezze e il patrimonio personale di ciascuno. Bastano teologia e spiritualità per la formazione dei seminaristi? La scuola di teologia e di filosofia qui a Roma non si svolge dentro il seminario, ma presso le università pontificie (Laterano e Gregoriana). Il compito del seminario quindi riguarda più l’aspetto umano e spirituale anche se cerchiamo di capire se i contenuti teologici entrano dentro, creano la mentalità. È una formazione della mente e del cuore. Ci sono poi alcuni momenti dedicati alla pastorale, due volte in settimana, quando vanno non solo nelle parrocchie, ma anche presso ospedali, carceri, case di accoglienza, malati di aids, in modo che possano confrontarsi con le varie situazioni. I seminaristi non sono chiusi in uno schema e impermeabili a tutto quello che accade all’esterno. Tutti poi nei primi dieci giorni di ottobre sono impegnati in missioni parrocchiali o cittadine, dove cercano di creare un clima di festa, di preghiera e di riflessione. Spesso sono responsabili, senz’altro soggetti attivi. chiedono di entrare in seminario? Sono giovani di oggi sì ma con un’identità ben precisa, giovani che hanno fatto la scelta della fede, gioiosi, aperti, impegnati, sereni. Fare un confronto coi giovani di una volta è difficile. Ci sono fragilità oggi come c’erano ieri, entusiasmi oggi come ieri; senza voler generalizzare c’è una buona disponibilità alla trasparenza e alla docilità. E’ quello che richiediamo come disposizione di fondo. L’indagine della Cei ha evidenziato la necessità di una riorganizzazione della struttura ecclesiale, come ha affermato mons. Betori. Cosa vorrà dire? Immagino che, come già si sta facendo da qualche parte si farà una ridistribuzione del clero e di zone pastorali diverse con équipe formate non solo da sacerdoti ma anche da religiosi e laici. Sarà un momento che favorirà l’ingresso responsabile dei laici, non più solo una loro prestazione d’opera nella pastorale, una maggiore compartecipazione. I ministeri istituiti acquisiranno una fisionomia più marcata. Cammin facendo si capirà. A quali sfide deve rispondere il sacerdote di oggi? La sfida della fede, prima di tutto, cioè impostare la propria vita sulla fede non solo come un atteggiamento, ma anche come mentalità, come modo di affrontare la vita e di capire sé stessi e gli altri. Il prete deve essere uno che sa trovare il tempo per alimentare il suo rapporto con Dio da cui nasce il suo operare, dunque un uomo di fede, di preghiera, attento alla persona, uomo della comunità.

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