Acqua quotata in Borsa e rischio speculazione

Il caso del “bene comune” sempre più raro che attrae l’interesse della finanza internazionale
Acqua bene comune Foto Vincenzo Livieri - LaPresse

Il film La grande scommessa sul crollo finanziario del 2008, termina con un cartello che ci informa che Michael Burry, il manager di un fondo speculativo (hedge fund) protagonista della storia, si stava dedicando a nuovi investimenti finanziari sull’acqua. Come spesso accade, l’arte anticipa gli eventi. E quanto previsto qualche anno fa si è materializzato il 7 dicembre 2020, quando un future sull’acqua ha fatto il suo debutto a Wall Street.

Il future è un contratto di acquisto futuro di un bene a un prezzo prefissato. Per fissare i prezzi si fa riferimento alle quotazioni, che derivano dagli scambi nelle borse delle merci, come accade per il petrolio o il grano. Nel caso dell’acqua si fa riferimento a un indice che fissa un prezzo sui diritti d’uso, ovvero acquisti in quantità e affitti orari dei bacini – il Nasdaq Veles California Water Index.

La quotazione dell’acqua nasce, come per le altre merci, dalla necessità di gestire il rischio sulle variazioni di prezzo. In aree come la California, dove i frequenti incendi provocano situazioni di scarsità di questo bene, si capisce la ragione di un tale strumento, tanto più in uno scenario di riscaldamento globale. Tuttavia esporre un bene comune come l’acqua ai rischi speculativi dei mercati finanziari appare azzardato. Abbiamo già sperimentato la devastante forza dei mercati finanziari nelle recenti crisi e sappiamo ormai per esperienza, confermata dai dati, che la possibilità di speculare su un bene porta ad una modificazione del prezzo per tutti, non solo per gli operatori del mercato finanziario.

Inoltre si è già testato proprio sui mercati delle merci l’insorgenza di bolle speculative che hanno distrutto interi mercati dei cereali a Chicago, Kansas City e Minneapolis, a danno di produttori e consumatori e a vantaggio della finanza. Lo aveva raccontato Frederick Kaufmann in un articolo su Nature nel 2012. Lo stesso articolo presentava la previsione di 3 miliardi di persone a rischio di scarsità idrica entro il 2035. Uno scenario che impone di affrontare il tema a livello globale, date tutte le ricadute geopolitiche del caso. Le Nazioni Unite, per voce di Pedro Arrojo-Agudo specialista per i diritti umani e la sicurezza idrica, ha espresso una forte preoccupazione per il lancio del future, un segnale che indica che «il valore dell’acqua come diritto umano basilare è in pericolo».

Se si vuole gestire i problemi di scarsità di un bene prezioso come l’acqua, senza affidarsi a meccanismi di mercato, bisogna fare un grosso lavoro istituzionale. Ne sa qualcosa il premio Nobel per l’Economia Elinor Ostrom, che di gestione dell’acqua in California si è occupata nel suo famoso lavoro Governare i beni collettivi del 2006.  La California soffre da decenni problemi di accaparramento delle sue preziose risorse idriche.

Come racconta Ostrom, attraverso un paziente lavoro di disegno istituzionale fra soggetti pubblici e privati, lavorando anche sulle leggi, si è arrivati a una gestione che evitasse l’accaparramento delle risorse idriche da parte di alcuni proprietari di terreni sotto cui fluiva la ricca falda a svantaggio di altri, che a valle rimanevano senza. Il meccanismo di “limite auto-imposto” adottato dai soggetti ha funzionato bene nella maggior parte dei bacini californiani. Tuttavia in alcuni casi vi sono tuttora controversie sui prelievi di acqua che ne fanno oscillare i prezzi.

L’esperienza californiana è sintomatica di quanto sia impegnativa e problematica la gestione di risorse comuni scarse, che sono allo stesso tempo necessarie sia ai cittadini che agli operatori economici. Occorrono un ulteriore sforzo, la sperimentazione di nuove vie e la valorizzazione di buone prassi alternative a una gestione privatistica che appare spesso una pericolosa scorciatoia istituzionale.

 

Acqua pubblica, legge incagliata alle Camere

a cura di Carlo Cefaloni

 

Con la vittoria dei 26 milioni di SI al referendum del 12 e 13 giugno 2011 è stata abrogato l’inserimento nella tariffa pagata dai cittadini della “remunerazione del capitale investito”. L’obiettivo del Forum dei movimenti per l’acqua pubblica era quello di escludere, in tal modo, dalla gestione del ciclo idrico le società interessate ad estrarne profitto. Percorso da portare a compimento con una legge di iniziativa popolare presentata alle Camere. A che punto stiamo?

L’esito referendario, come denuncia il Forum, è stato aggirato sostituendo, nella tariffa, la “remunerazione del capitale investito” con gli “oneri finanziari del gestore”. Di fatto il ciclo idrico è gestito da grandi società quotate in Borsa (A2a, Acea, Hera e Iren). Nel capitale di Acea troviamo, ad esempio, Roma Capitale (51%), Suez SA (23%) e Francesco Gaetano Caltagirone (5%). E la legge di iniziativa popolare?

Paolo Carsetti, portavoce del Forum, parla di un «atteggiamento ostativo di tutte le forze politiche; nonostante gli annunci, il percorso della legge sembra completamente arenato in Commissione Ambiente della Camera».

Cosa comporterebbe l’approvazione della normativa incagliata in Parlamento? Una gestione pubblica del ciclo idrico «realizzata senza profitti, in una logica di equilibrio tra costi e ricavi, quella che si garantisce unicamente con le aziende speciali, aziende pubbliche ma non società per azioni». Come ci tiene a sottolineare Carsetti, «l’approvazione della legge per l’acqua pubblica permetterebbe una gestione pubblica e partecipativa (mediante azienda speciale e azienda speciale consortile), attraverso la concretizzazione di un modello innovativo, efficace, efficiente, industriale, ma allo stesso tempo pienamente democratico, rispettoso dell’ambiente e dei diritti dei lavoratori, con tariffe eque per tutti».

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