A Roma la fantasia al potere

Due rassegne raccontano il lato onirico e fantasioso dell'arte. Dai surrealisti ad Alexander Calder centinaia di opere ne dicono la storia.
Glass Fish

La fantasia è il grande dono dei bambini. Ma i veri artisti non sono anche, nell’animo, spesso dei “bambini”? Potrebbe essere questa la chiave d’ingresso alla dimensione dell’onirico e del fantastico con cui l’arte lungo i secoli ha tentato di sondare il sopra-il-reale, la dimensione “altra”.

Diventare, in qualche modo, bambini capaci di stupirsi e di immaginare, è dunque bello e aiuta, nella vasta rassegna al Vittoriano, passare da Moreau a Magritte, da Dalì a Chagall a De Chirico, non trascurando Picasso e Max Ernst. E senza dimenticare le mostre parigine che lungo il secolo, fino ad oggi, hanno raccolto le esplorazioni di artisti di diverse sensibilità.

Il Surrealismo, infatti, oltre che un grande movimento culturale del secolo scorso, è linguaggio universale, semplicemente perché è un tratto dell’animo umano, anzi una sua innata tendenza. Chi osserva la tela di De Chirico L’enigma di una partenza (1916) si trova a prima vista sorpreso: edifici squadrati, un cielo verde e lo sbuffo di un treno, la partenza appunto. Ma è la non-naturalità dei colori, ossia la loro irrealtà a dirci che il quadro è una metafora dello stato d’animo di chi parte.

Lascia una luce, avverte un dolore e via verso l’ignoto, significato dal piccolo treno all’orizzonte. Chi guarda poi Il Castello dei Pirenei di Magritte (1959) si chiederà perché galleggi una roccia col castello dentro un cielo azzurro e annuvolato, sospeso come una grossa pigna sul vuoto abissale.

Un bambino, forse, intuisce subito che si tratta di un ricordo fantasiosamente sospeso nella memoria del pittore, che ne fotografa a bei colori chiari la piacevolezza.

Certo, a volte i sogni sono meno chiari. La Fisica divertente di Pierre Roy (1929) colloca una ruota quasi al centro della tela, un ghiribizzo a forma di serpente nell’aria e apre una finestra sul panorama. È scherzo o follia? Se si vuole, tutt’e due, per divertire e divertirsi, assembrando cose in un apparente non-senso, ma che per l’artista-bambino sono parole della fantasia, ricordi messi insieme dentro una stanza. Difficile? L’uccello in gabbia di Max Enst (1926) con le tinte scurite e la gabbia prigione umana fa un poco paura: non sempre la vita è evasione nel sogno. L’uccello in gabbia non è anche un segno dell’uomo ingabbiato nella società?

Occorre allora fuggire, ma dove? In altri mondi, dove le forme geometriche galleggiano in giri armoniosi. Lo suggerisce Kandinsky in Flusso (1935), tela di colori smaglianti, che fluttuano liberi di vagare.

Libertà è in definitiva il grande grido dei surrealisti di ogni tempo, e del nostro. Così Yves Tanguiy affronta nel Senza titolo del 1939 suggestioni di esseri filiformi in chiara compagnia di un orizzonte velato. Ma Jean Arp nel Busto con testa di fiori, un rilievo in legno dipinto, reagisce alla fantasia surreale con una forma curvilinea che sintetizza l’essere umano rivestito di fiori. È la risposta di un altro movimento, il Dadaismo, concreto e disinibito, all’onirico.

Eppure, non si può distruggere la voglia di vagare.

 

L’arte spaziale di Alexander Calder

 

Volano infatti nel vento le opere di Calder, scomparso nel 1976. Vi si muovono come architetture dell’aria. L’americano dimostra che una lamiera, un bronzo, un pezzo d’ottone o un fil di ferro possono diventare soggetti d’arte, poesia. Siano gocce sospese nello spazio, o lance aguzze che si levano da terra, esse manifestano un desiderio di trascendersi per rimanere per sempre. L’immortalità della ricerca artistica le pervade completamente.

Calder va oltre il sogno dei surrealisti per compiere un passo ulteriore, e formidabile, verso l’astrazione perfetta. Penso alla Costellazione (1943) o   all’Arco di petali (1941), frammenti laminati a comporre suoni udibili solo interiormente, ma naviganti nello spazio che sembra incurvarsi al loro fluttuare. Vedo la Cascata di fiori (1949), vibrazioni metalliche traforate dalla luce e la Croce del Sud (1963): c’è un fuoco nel cuore di Calder, che lo fa viaggiare attraverso l’infinito, lasciandovi tracce, in queste lingue aguzze, di sentimenti sparsi nell’aria. Cioè nel cosmo.

Non è arte alta, astrazione sublime, questa? Ma ci vogliono gli occhi del bambino per accorgersene. Calder, che amava isolarsi nelle campagne francesi tra opere monumentali e fili di ferro a stilizzare le forme umane, aveva ritrovato l’innocenza. Questa grande mostra dà anche a noi, finalmente, la stessa occasione.

 

Calder. Roma, Palazzo delle Esposizioni, fino al 14/2 (catalogo Il Sole 24Ore Motta Cultura).

Dada e surrealismo riscoperti. Roma, Vittoriano, fino al 7/2 (catalogo Skira).

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