A Mae La quel filo di speranza

No, non mi abituerò mai alle immagini di quelle donne con neonati infagottati sulle spalle, quei bambini e bambine dal ventre gonfio perché infestato da vermi, quei vecchi piegati in due sotto il peso di grosse ceste, quei ragazzi con gli arti amputati, in fuga nella giungla. Sono immagini dal vivo, e per di più recenti. Nel giugno scorso, fonti anonime di una Ong americana hanno documentato con la macchina fotografica, forse per la prima volta, lo sfollamento forzato di un villaggio karen in Myanmar, a 50 miglia dalla Thailandia. Da tempo l’esercito governativo muove attacchi contro i civili, bruciando villaggi e costringendo gli abitanti ad andare nei campi di lavoro. Ma in un paese dove è proibito persino l’uso di Internet, si sa ben poco di ciò che avviene. Si calcola che, solo nel primo mese dell’anno, almeno cinquemila persone abbiano lasciato le loro case per paura di essere deportate, costrette ai lavori forzati o addirittura torturate ed uccise. Sono solo pochi scatti, sfuggiti non si sa come ai controlli della polizia. A provare, se ce ne fosse bisogno, un episodio, uno dei tanti, di una tragedia dai contorni di una vera e propria pulizia etnica, che si consuma nell’indifferenza internazionale. I karen sono solo una della principali etnie che compongono il mosaico birmano (circa 7 milioni su una popolazione di 44 milioni di abitanti). Un popolo di antiche e nobili tradizioni, che le suddivisioni coloniali hanno lasciato senza patria. Dal 1949 lotta contro il governo centrale di Rangoon per ottenere l’indipendenza e mantenere la propria identità. Il risultato è che almeno un milione di essi vive clandestinamente tra Thailandia, India, Bangladesh. Gli al- tri, allo stremo, sono braccati in patria. Più di un milione cerca di sopravvivere in rifugi improvvisati nella giungla. Per evitare il ritorno nei luoghi di provenienza, infatti, i militari, dopo aver distrutto i loro villaggi, minano le strade ed i campi di riso. Ed è proprio sul confine tra Myanmar e Thailandia che si riversa questa fiumana umana, sospinta in avanti dall’esercito birmano e ricacciata indietro da quello thailandese, per il quale non si tratta che di clandestini. Solo in minima parte – intorno alle cento, centoventimila persone – trova rifugio nei campi profughi sparsi lungo il confine, in territorio thailandese. Una sorta di zona franca, dalla quale tuttavia è proibito uscire o spostarsi. Alcune organizzazioni umanitarie internazionali sono presenti negli insediamenti e si adoperano per assistere i profughi. In modo particolare, la chiesa e diverse associazioni locali affiancano e sostengono le varie forme di autoaiuto gestite dai profughi stessi. Lì la vita è molto dura dappertutto. Ma non si lamentano e con grande dignità cercano di alleviare le loro condizioni, organizzando al meglio i servizi essenziali. Le case, poco più che capanne, sono di bambù, ed i tetti coperti da foglie di tek. Non c’è acqua corrente, né elettricità. Per ciò tutti, anche i bambini, fanno le loro scorte con bottiglie e taniche. Ogni mattina una lunga fila di gente si snoda con compostezza per attingere l’acqua, raccogliere verdure selvatiche e legna, tagliare canne di bambù per riparare le case. Sopravvivono coltivando piccoli appezzamenti, oppure andando a lavorare illegalmente per pochi spiccioli nei cantieri edili o nelle fabbriche di abbigliamento, la maggior parte delle quali – anch’esse illegalmente – producono per l’esportazione. Eppure, luoghi come Mae Sot, Mae Hong Son, Mae La, sembrano il paradiso per chi attraversa il confine spossato dalla fame, dalla paura, dalla malattia, ferito nel corpo e nell’anima. A Mae Sot trovano una dottoressa minuta, che con assoluto disinteresse personale li assiste come può. È Cynthia Maung, di etnia karen, profuga anche lei. A 27 anni, nel 1988, mentre i soldati del regime militare soffocavano nel sangue le manifestazioni di migliaia di studenti che chiedevano democrazia, Cynthia scappò in Thailandia. Qui, con l’aiuto della chiesa locale aprì un primo centro di assistenza medica in un pollaio in disuso. Sfidando innumerevoli difficoltà, nel corso degli anni la dottoressa Maung ha avviato un piccolo, ma efficiente centro ospedaliero, in cui si curano ogni anno migliaia di pazienti. La sua totale dedizione ai profughi le ha valso l’appellativo di Madre Teresa della Birmania ed importanti riconoscimenti internazionali. A Mae La, invece, un altro campo di 37 mila profughi situato più a nord, nella provincia di Tak, troviamo un altro rifugiato birmano, che per ragioni di sicurezza chiameremo Peter Win. Anche lui di etnia karen, anche lui uno degli studenti sfuggito alle stragi dell’88. Ricorda Nivaldo Inojosa De Farias, dei Focolari in quegli anni in Thailandia: L’abbiamo conosciuto durante un viaggio in Birmania, dove abbiamo incontrato molti giovani come lui. Ci ha subito impressionato per la sua vivacità e freschezza. Nel 1988, la nazione era scossa da un grande risveglio con aspirazioni democratiche. Migliaia di studenti scendevano in piazza chiedendo le elezioni. Per un po’ si è creduto che finalmente anche per la Birmania fosse arrivato il momento di cambiamenti. Invece, di colpo, l’esercito è arrivato e ha cominciato a sparare sulla folla indifesa. Centinaia le vittime. Migliaia i prigionieri, mentre altrettanti hanno trovato rifugio nella giungla. Un giorno Peter chiama da un paese di confine al nord della Thailandia. È fuggito con altri studenti ed è nascosto nella giungla. Avevano bisogno di tutto – prosegue Nivaldo -: dal cibo ai vestiti, alle medicine contro la malaria, alle coperte. Ci siamo dati da fare e abbiamo raccolto una grande quantità di generi di prima necessità. Da allora ci siamo impegnati ad aiutarli in tutto ciò che ci era possibile. Col tempo siamo riusciti a trovare persone e organizzazioni disposte ad aiutare i ragazzi. Tanti di loro, riconosciuti come rifugiati, sono stati accolti in altre nazioni . Peter però da tempo si era deciso a impegnarsi per il suo popolo. Presto è diventato un leader e si è dato da fare per trovare soluzioni per i suoi amici. Una delle maggiori emergenze nel campo profughi è senz’altro la mancanza di scuole. Anche l’istruzione costa, e per giunta parecchi ragazzi sono privi di documenti. Non esistono per l’anagrafe, quindi non hanno nessun diritto, nemmeno di andare a scuola. Ben presto intorno a Peter si coagulano le forze vive del campo profughi. Raccolgono i primi ragazzi in una sorta di capannone, col tetto di foglie di tek. Attualmente 450 alunni dai 6 ai 14 anni frequentano la scuola primaria. Da due anni, inoltre, funziona un centro per disabili, presenti in gran numero nel campo profughi. I responsabili dei Focolari in Thailandia, che ben conoscono l’affidabilità del giovane profugo birmano, segnalano il progetto, che per diversi anni viene proposto nelle Fiere Primavera dal Movimento Ragazzi per l’Unità, con la collaborazione dell’Amu, Ong che opera nella cooperazione internazionale. Per la dott. Salvina Infantino, vicepresidente dell’Amu e coordinatrice dei progetti, un tale impegno, per quanto modesto, si è rivelato essenziale in una situazione così complessa, dove non vi sono prospettive di soluzione in tempi brevi. È importante – ci ha detto – aiutare a tener vivo quel filo di speranza, quello almeno che può esserci in un campo profughi, in un futuro migliore, se non per sé, almeno per i propri figli. Chi desidera sostenere i profughi birmani può inviare il proprio contributo all’Associazione Azione per un Mondo Unito-Onlus (Amu), via Frascati 342 – 00040 Rocca di Papa (Roma), su uno dei seguenti conti: Conto corrente postale n. 81065005; Conto corrente bancario n. 640053 presso San Paolo IMI,Agenzia di Grottaferrata (Roma) ABI 01025 CAB 39140, CIN M. L’Amu è una Ong riconosciuta dal ministero degli Affari Esteri e i contributi ad essa versati sono deducibili dal reddito o, in alternativa, detraibili, secondo le norme di legge. Per informazioni: tel. 0694792170 fax 0694790359 email amu@azionemondounito. org.

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