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Conosciamo la storia della Siria

a cura di Giampietro Parolin

- Fonte: Città Nuova

Intervista al professor Vittorio Berti, professore di Storia del cristianesimo e delle Chiese all’Università di Padova. «La Siria, dunque, non rappresenta un punto di partenza, ma piuttosto un punto di arrivo, il risultato di una lunga e complessa storia»

Damasco 2025 ANSA/GIUSEPPE LAMI

Lo scorso maggio 2025 si è svolto a Padova l’incontro “Sguardi sulla Siria: dialogo tra sfide e speranze”. L’iniziativa è nata dal gruppo “27 ottobre” per il dialogo cristiano-islamico, fondato proprio nella città del Santo nel 2019.

All’incontro hanno partecipato due esperti del mondo siriano: il giornalista Riccardo Cristiano e il professor Vittorio Berti, docente di Storia del cristianesimo e delle Chiese all’Università di Padova, specializzato in studi siriaci e presidente dell’associazione Syriaca.

Al professor Berti abbiamo rivolto alcune domande per approfondire aspetti poco noti della storia della Siria.

Innanzitutto: quando e come si è formata la Siria come Stato?

Per raccontare una storia che, al netto delle sue fratture e discontinuità, dura da 5.000 anni, vorrei partire da un punto che può sembrare banale, ma non lo è: le terre non hanno nomi per natura, non nascono con un nome scritto sopra. “Siria” è un nome che ha avuto una storia e si è riferito nel tempo a un territorio che ha subito molte modificazioni nella sua estensione. I confini sono a volte dettati da elementi naturali – fiumi, montagne – ma sono anche costruzioni culturali e storiche: lingue, popoli, guerre. Nel greco antico, il termine Syroi designava gli abitanti di una vasta regione a occidente e oriente dell’Eufrate. Gli studiosi greci usavano “Syria” come abbreviazione o variante del termine “Assyria”, che indicava il potente impero sorto nella Mesopotamia settentrionale. Erodoto, nel V secolo a.C., usa ad esempio “Siri” e “Assiri” quasi come sinonimi. “Assiria”, però, propriamente indica la regione dell’antico impero assiro, con capitale Ninive, nella Mesopotamia settentrionale (l’odierno Iraq), mentre “Siria”, nell’uso ellenistico e poi romano, venne invece a designare la zona a occidente dell’Eufrate, cioè l’odierna Siria, il Libano e parte della Turchia e della Palestina. Con il tempo, i due termini si differenziarono, ma l’origine comune è chiara. Già nel mondo greco-romano si notava confusione, e nel periodo bizantino la distinzione era consolidata, ma non sempre rigida.

Nel Medio Oriente, i fattori che contribuiscono a costruire l’identità di un territorio sono moltissimi: parliamo di luoghi in cui la presenza umana è millenaria, e sotto forma statuale da millenni. Cosa che non si può affermare per tutte le regioni del mondo. Qui nasce la forma dello Stato, intesa come controllo del territorio, gestione delle acque, pianificazione. Non è banale. Per fare un esempio che riguarda alcuni colleghi archeologi dell’Università di Udine, scavi condotti in nord Iraq hanno di recente riportato alla luce nuove prove del sistema dei canali costruiti dagli Assiri, vere e proprie opere ingegneristiche (note già per altre parti della Mesopotamia) di controllo dell’acqua, utili a organizzare l’agricoltura, favorire lo sviluppo dei villaggi e, non da ultimo, costruire un’egemonia politico-militare chiara.

La Siria, dunque, non rappresenta un punto di partenza, ma piuttosto un punto di arrivo, il risultato di una lunga e complessa storia. Un patriarca cristiano siro-ortodosso orientale del IX secolo, di nome Dionigi di Tell Mahre, in piena epoca islamica, raccontava cos’era per lui la Siria, restituendo un’immagine già allora considerata vetusta, vale a dire quella che precedeva l’arrivo dell’Islam e della lingua araba in queste terre: «Dobbiamo far sapere che il nome Siria è un nome generico, che si compone di due specie. Si chiamano propriamente siriani gli abitanti della regione a occidente dell’Eufrate, che si estende in lunghezza dal monte Manus, a nord di Antiochia, fino ai confini della Palestina, a sud; e in larghezza dal mare Mediterraneo fino al fiume Eufrate».

Quindi, in senso stretto, i siriani per lui erano gli abitanti a ovest dell’Eufrate, come sono anche oggi. Ma in senso lato, erano siriani tutti coloro che parlavano la lingua aramaica, anche a est del fiume, fino alla Persia – l’Iran di oggi – e includendo anche la Mesopotamia, cioè l’attuale Iraq.

La vecchia grande Siria arameofona del mondo pre-islamico, dunque, non coincideva con i confini dell’attuale Stato siriano. Era una regione molto più estesa, che includeva anche la Mesopotamia. Tuttavia, già allora si riconosceva una distinzione: i siriani “propriamente detti” erano a occidente dell’Eufrate, anche se tutti gli aramaici erano inclusi nel termine in senso lato. Parlava un cristiano, è chiaro: aveva in mente una geografia antica, ma già in mutamento, perché nel frattempo c’era stata l’espansione islamica, la nascita dei califfati – prima quello omayyade, con centro proprio in Siria, poi quello abbaside, spostato nella regione che oggi chiamiamo Iraq. Baghdad, infatti, nasce in quel periodo. Con l’Islam e l’imporsi dell’arabofonia dal VII-VIII secolo in poi, ovviamente le cose cambiano, ma una certa continuità culturale tra Siria e Iraq (la Mezzaluna fertile) rimase fino all’epoca moderna. I confini attuali sono frutto di una storia più recente, anche se sembrano riprodurre quel confine tra impero romano orientale e impero sassanide che proprio l’Islam aveva cancellato.

Per la nostra cultura europea, uno Stato è fatto di territorio, popolo e lingua. Vale anche per la Siria?

Nella “Grande Siria” della tarda antichità (III-VII secolo), che si estendeva fino all’Iran, si parlava siriaco, cioè aramaico, una variante della stessa lingua che parlava Gesù. La capitale culturale di questo mondo, principalmente cristiano, era Edessa (oggi Urfa, in Turchia). L’arabo, si è detto, è una lingua di importazione – pur sempre semitica, certo – ma impostasi successivamente. Prima dell’arabo c’erano stati i greci sulle regioni costiere della Siria: ad Antiochia si parlava greco, e lì i cristiani presero il proprio nome. Antiochia era una città greca, ma spostandosi a est si parlava aramaico. Era un tempo e un mondo poliglotta, dove si parlavano più lingue nelle stesse terre. La condizione monolingue è un prodotto più tipico degli Stati-nazione moderni europei. È solo dopo l’età moderna che nasce il legame “un popolo, una lingua, uno Stato”. Oggi ci stupiamo della pluralità linguistica, che invece era la norma in molte regioni, per esempio in Europa orientale.

Questo nostro sguardo non funziona se vogliamo capire contesti come quello del Medio Oriente. Anzi, lo complica e lo rende poco comprensibile: qui i popoli si definiscono non solo per la lingua, ma anche – e spesso soprattutto – per cultura e religione. L’identità è fatta di molti elementi, anche, per esempio, del rapporto con lo spazio.

Prima dell’Islam, la “Grande Siria” andava dal Mediterraneo all’Iran, lungo il confine mobile tra il mondo romano e quello persiano, che si è spostato per secoli fino all’età di Giustiniano. E con lo spostarsi dei confini si spostano anche le lingue, le culture, i cristiani stessi: quelli siriaci arriveranno fino in India, in Cina, in Tibet, creando diocesi, metropoli e letterature che dureranno per tutto il Medioevo.

Quando i nostri viaggiatori medievali – Marco Polo o Odorico da Pordenone, Giovanni di Pian di Carpine o Guglielmo di Rubroek – arrivano in Cina, trovano cristiani appartenenti alle chiese della Grande Siria, scismatiche o comunque separate da quella romana e anche da quella greco-ortodossa, cristiani (nestoriani o giacobiti) che magari parlano mongolo, turco o altre lingue iraniche, ma scrivono in siriaco, e calcano le terre tra Persia e Cina da sei secoli. A questo si aggiunga che la diffusione della cultura grafica e alfabetica di matrice aramaica, già prima della diffusione del cristianesimo, aveva influenzato molti dei sistemi di scrittura lungo la via della Seta fino all’Asia centrale e all’estremo-orientale, ad esempio il sogdiano, che è una lingua iranica ma scritta con caratteri aramaici.

Che ruolo ha avuto l’Islam? E come si è evoluta la presenza cristiana in Siria?

Con la diffusione delle armate arabe musulmane, è proprio tra Siria e Iraq – dove insistono il califfato omayyade e il successivo califfato abbaside – che l’Islam, dalla seconda metà del VII secolo, impara a organizzarsi nella forma di una statualità confessionale. Qui preesistevano culture sedentarie, amministrazioni statali complesse: romane a occidente e sassanidi a oriente. L’Islam, con intelligenza, valorizza queste competenze: organizza ospedali, posta, produzione artigianale, e include esperti delle altre comunità religiose ed etniche. Chi erano i medici dei califfi? Spesso cristiani siriaci di area iranica, oppure ebrei. Così anche segretari, orafi, traduttori, filosofi, ecc.

E non è un caso: il potere sovrano del califfo si fidava più delle competenze di membri di comunità politicamente minoritarie – come per esempio spesso faranno i papi affidando la propria salute a medici ebrei –, proprio perché chi viveva in condizione di sudditanza aveva tutto l’interesse che chi deteneva il potere stesse bene e gli garantisse protezione. La forma del califfato, peraltro, è stata straordinariamente capace di inclusione e funzionamento integrato delle diversità culturali, per almeno due-tre secoli, elemento che ha contribuito alla sua egemonia culturale, politica, militare ed economica.

Poi, per ragioni anche pragmatiche, molte famiglie cristiane dell’élite si convertirono all’Islam (per convenienza, per evitare tasse, ecc.). Lo vediamo nelle genealogie di alcune delle grandi casate cristiane dell’area: ad esempio la famiglia degli Al-Anbari, segretari di Stato, o quella dei medici siro-persiani dei Bokhtisho‘, che grosso modo tre generazioni dopo l’imporsi dello Stato islamico diventano musulmani.

Con la progressiva conversione delle élite, le Chiese cristiane che prima avevano un ruolo culturale fondamentale iniziano a conoscere un periodo di progressiva stagnazione e marginalità culturale: se prima il califfato pagava i cristiani per accedere alla trasmissione del sapere greco, quando si formarono specialisti musulmani in grado di farlo autonomamente, il quadro del mercato della conoscenza cambiò.

Per qualche tempo, l’aramaico aveva continuato a essere lingua di cultura, ponte tra greco e arabo. Una volta raggiunta un’autonomia culturale da parte dei musulmani, le comunità cristiane persero di appeal, per così dire, prima in termini di potere, poi anche demograficamente, e gli stessi cristiani cominciarono a usare l’arabo anche per la scrittura dotta, lasciando il siriaco per la vita liturgica (anche se nel tempo questa lingua conobbe importanti rinascite letterarie). Nella grande Siria, fino alla metà dell’VIII secolo, i cristiani erano forse ancora la maggioranza relativa. Ma la demografia è sempre decisiva: come dimostrano anche contesti odierni, è un elemento cruciale nelle dinamiche di potere. I cristiani non sono diminuiti tanto per decrescita, ma perché la Umma islamica è cresciuta molto più rapidamente, facendo passare i cristiani in pochi secoli dal 30% al 5%, o anche meno, della popolazione.

Paradossalmente è il Novecento – e l’interferenza occidentale – ad aver peggiorato la condizione della diversità religiosa nel mondo islamico, che fino ad allora era riuscito spesso a convivere con le differenze.

Il cristianesimo antico si era sviluppato lungo le coste del Mediterraneo e in Europa tramite una rete di diocesi, vescovi e monasteri. L’Islam, storicamente, dove ha conquistato terre un tempo cristiane, ha avuto un rapporto più facile con i monasteri – divenuti nel tempo anche meta di pellegrinaggi musulmani – e più complesso con i vescovi, percepiti come “potenti” in dialogo con altri poteri, nello schema costantiniano di protezione imperiale delle chiese. Il sistema episcopale ha cercato anche con i sovrani musulmani di riprodurre lo schema costantiniano, per quanto possibile, e anche oggi, in una certa misura, gli episcopati orientali tendono a cercare il favore del potente di turno, per proteggere la propria comunità. È un riflesso antico, che ha ragioni profonde, è difficile da scardinare, e si espone talora ad ambiguità e compromissioni in alcuni casi difficili da difendere.

Non dimentichiamo inoltre che il panorama cristiano era già molto frammentato dal V secolo: divisioni dottrinali, giurisdizionali, identitarie che si sono trascinate e ulteriormente complicate per il seguente millennio e mezzo che porta fino a noi. Il mosaico straordinariamente complesso delle innumerevoli microconfessioni cristiane del Medioriente e in Siria in specie, è il frutto ultimo di questa lunga storia. D’altro canto, anche l’Islam non è una realtà unitaria: porta con sé tendenze scismatiche molto simili a quelle del cristianesimo e dell’ebraismo.

La frammentazione è quindi un tratto comune?

In Siria come altrove, le confessioni sono tante e non sempre si riconoscono tra loro. Anche tra cristiani, spesso, per molto tempo non ci si è riconosciuti reciprocamente come tali. È normale, è umano. Oggi, grazie all’ecumenismo, la situazione è migliore tra le antiche Chiese d’Oriente, ma restano molti passi da fare. Stesso discorso vale per il dialogo interreligioso tra i tre monoteismi. Peraltro, le divergenze fanno parte della storia. Non bisogna negarle, né illudersi del fatto che insistere sul “ciò che ci unisce è più importante di ciò che ci divide” basti a disincentivare la fascinazione identitaria di ciò che contraddistingue in maniera irrinunciabile una certa confessione. Non funziona così: spesso, in assenza d’altro, si diventa molto orgogliosi di dettagli apparentemente insignificanti, ma che in una prospettiva micropolitica sono decisivi per formare un nocciolo identitario condiviso a livello locale. Piuttosto, dobbiamo riconoscere che è legittimo avere idee, tradizioni e sensibilità diverse, e che anche le differenze sono preziose, entro certi limiti. Possono contenere perle, se sappiamo ascoltarle e valorizzarle laddove portano vita. Il punto è lavorare sulla legittimazione reciproca delle diversità e rifiutare ciò che nel discorso identitario spinge alla negazione dell’altro e in ultima istanza, al disprezzo della vita.

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