L’ultimo giorno di Obama

Si chiude l’era del primo presidente afro-americano tra luci e ombre che hanno rivelato una figura storica e un modello che non sempre ha saputo agire all’altezza del suo mandato
United States President Barack Obama gives his last press conference in the press briefing room of the White House, Washington, DC, January 18, 2017. Credit: Aude Guerrucci / Pool via CNP - NO'WIRE'SERVICE - Photo by: Aude Guerrucci/picture-alliance/dpa/AP Images

Nell’ultimo giorno alla Casa Bianca, Barack Obama ha commutato la pena a 330 condannati per reati legati alla droga in lavori socialmente utili e corsi riabilitativi, sulla scia della grazia concessa a Chelsea Manning, il militare che passò a Wikileaks documenti sulle attività militari Usa in Afghanistan e Iraq. Ha poi stigmatizzato la decisione del congresso di non chiudere Guantanamo, prigione dove sono stati rinchiusi sospetti di terrorismo e dove i diritti umani sono stati più volte violati.

 

L’ultimo giorno è stato usato dagli assistenti alla Casa Bianca per liberare le pareti dalle foto del primo presidente afro-americano della storia statunitense, considerato tra l’altro il più fotogenico tra tutti i suoi predecessori. Nell’ultima settimana Obama ha concesso a sorpresa la medaglia della libertà al suo vice Joe Biden, il primo vicepresidente cattolico della storia democratica Usa. La massima onoreficenza è stata ricevuta tra la commozione di entrambi: Biden era all’oscuro della sorpresa di Obama.

 

Il presidente ha indirizzato il suo ultimo discorso alla stampa ed è stato la sintesi dei suoi due mandati e una proiezione di quello che sarà il suo futuro: scrivere, riposare, dedicarsi alla famiglia. Ma le sollecitazioni incalzanti dei giornalisti che faticano a vederlo in pantofole gli hanno strappato l’impegno a far sentire la propria voce «se i valori e gli ideali americani verranno minacciati».  Ha rassicurato sulla sua presenza alla cerimonia di inaugurazione, nonostante sia consapevole che Trump arriva a succedergli con un bassissimo tasso di popolarità. Anche se il gabinetto di Obama ha dubitato che lo staff del successore abbia sfogliato i dossier con il passaggio di consegne, il presidente uscente ha parlato dei consigli dati al neoeletto invitandolo a non essere un corridore solitario «perché se lavori in modo isolato o ascolti solo persone che ti danno sempre ragione e se non hai creato una squadra, se non metti continuamente in discussione le tue visioni, inizi a fare sbagli». E forse dietro questi suggerimenti ci sarà l’esperienza del suo lungo mandato, errori compresi. Perché assieme ai meriti, come l’aver creato e protetto negli ultimi quattro anni 1,6 milioni di posti di lavoro all’anno e aver concesso un sistema sanitario di cure diffuse, Obama ha compiuto anche errori: i politologi sono unanimi nel giudizio.

 

Prova ne sia che il suo partito non ha perso solo le elezioni presidenziali, ma anche la maggioranza al Congresso e al Senato. Altro banco di prova – e anche qui il giudizio dei politologi è convergente – è  stato il Medio Oriente, la decisione di lasciare l’Iraq nonostante le contrarietà del Pentagono e le tante ambiguità sulla Siria e sul Califfato islamico, il contagio del terrorismo in Europa, dove il timore del radicalismo islamista e le ondate migratorie hanno fatto insorgere populismi e contestazioni ai governi in carica. Il famoso discorso al Cairo nel 2009, quando il presidente statunitense auspicava una collaborazione tra musulmani illuminati e mondo occidentale in vista di un futuro e di un bene comune, si è rivelato idealista ma non realista alla prova dell’Isis e degli sviluppi contradditori delle cosidette “primavere arabe”, che sembravano inizialmente soffiare nella direzione da lui auspicata.

 

Analogamente ha sorpreso osservatori e politici la pur comprensibile scelta di condannare gli insediamenti di Israele in Palestina, scelta evitata dai predecessori, che nei fatti ha inasprito i rapporti anche con gli ebrei di casa propria. E infine la questione russa acuitasi, in queste ultime settimane, con l’espulsione di alcuni rappresentanti diplomatici, dopo le controverse questioni ucraina e siriana.

Resteranno il gesto di riconciliazione con Cuba e l’aver accettato l’intervento della diplomazia vaticana per facilitare l’accordo. Così come la battaglia sui cambiamenti climatici culminata con la firma del Trattato di Parigi nel 2015 in cui ben 195 Paesi si sono impegnati a ridurre i gas serra.

Dentro i confini statunitensi Obama sembra aver perso la guerra per il controllo delle armi e la sua visione di superamento dei conflitti razziali: il Paese si è ritrovato diviso e polarizzato nelle differenze pur essendo nato da culture e popoli differenti.

Eppure di Obama non pochi statunitensi cominciano già ad avere una certa nostalgia: della sua famiglia, innanzitutto, e di come le sue “tre donne” siano state un simbolo e un’ispirazione per molti. Non pochi avranno nostalgia del suo essere ambasciatore dei valori più sani e stimati del Paese; mancherà pure il suo “potere soft” affidato alla dialettica e alla simpatia e non a tweet astiosi e sgrammaticati. Mancherà ai suoi concittadini non tanto il suo essere comandante in capo, ma il suo essere presidente e i suoi sogni di cambiamento del mondo, anche se poi è stato «il mondo a cambiare lui», come Nicholas Kristoff sottolineava sulle pagine del New York Times.

Quando alle 15.30 ora italiana, Barack Obama non sarà più presidente, il futuro dei “suoi Stati Uniti” resta affidato alla partecipazione (che ha invocato a più riprese) e ai giovani a cui ha voluto dedicare – come Michelle – le ultime parole del discorso di addio: «Voi credete in un’America equa, giusta ed  inclusiva e sapete che il cambiamento costante è stato marchio di garanzia degli Stati Uniti, e che non è qualcosa da temere, ma da abbracciare. Questo è il duro lavoro della democrazia». Questa è l’agenda che spetta ai suoi connazionali.

 

 

 

 

 

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