Haiti, accordi per evitare il caos totale

Haiti è al limite dell’anarchia. Quel poco di governo che rimaneva, almeno sulla carta, è andato in fumo sotto la pressione delle bande criminali che hanno in pugno la capitale. Si negozia la creazione di un Consiglio di transizione in un clima di forte disincanto
Haiti nel caos Ansa EPA/JOHNSON SABIN

Impossibilitato a rientrare in patria per l’occupazione dell’aeroporto di Port-au-Prince da parte delle bande armate che controllano oltre l’80% della capitale e le principali vie di comunicazione, un primo ministro carente di rappresentatività ha annunciato le sue dimissioni non appena entri in funzione il Consiglio di governo di transizione proposto dalla Comunità degli Stati dei Caraibi (Caricom).

I media internazionali ripropongono video con le dichiarazioni di Jimmy “Barbecue” Chérizier (detto anche Bbq), l’ex poliziotto capo della coalizione di gang “Viv Ansanm”, che annunciava “una guerra civile” che sarebbe terminata in un “genocidio” se la comunità internazionale non avesse smesso di sostenere l’ormai ex primo ministro Ariel Henry. Ora che l’ha ottenuto, dichiara che non riconosceranno nessun governo provvisorio fino alla nomina di un presidente eletto dal popolo.

Il Consiglio, comunque, tarda a costituirsi, per via di disaccordi in seno ad una delle coalizioni da cui deve uscire uno dei sette membri.

Unione Europea e Stati Uniti hanno evacuato i loro rappresentanti nel Paese. Una polizia insufficiente e male armata cerca di recuperare quartieri alla libera mobilità, anche con l’aiuto di cittadini auto-organizzati. Le agenzie ONU avvertono che la povertà, l’emigrazione e la fame rischiano di diventare incontrollabili. Sparatorie, rapimenti di bambini, assalti di gruppo, attacchi a stazioni di polizia, oltre 3.800 carcerati evasi e decine di migliaia di sfollati formano un quadro da girone dantesco. Allo stesso tempo, le necessità di sopravvivenza spingono la gente ad uscire comunque di casa per cercare di procurarsi da vivere.

«A Port-au-Prince le scuole sono chiuse (funzionano in altre regioni) perché la gente fugge dai quartieri che cadono i mano alle gang, e perché continuano i rapimenti, che seminano il terrore», spiega a Città Nuova da Ouanaminthe, alla frontiera con la Repubblica Dominicana, l’economista e analista politico Simond Adneau. «Tante aziende funzionano a basso regime perché per i lavoratori è difficile spostarsi a causa delle barricate, degli incendi e delle esplosioni».

L’opinione pubblica ha salutato con soddisfazione le dimissioni di Henry. Spiega Adneau: «Volevano che se ne andasse perché ha fallito nel mantenere la sicurezza e altre promesse», fra le quali, quelle di indire elezioni. «Dopo l’annuncio di indirle solo per il 2025, gli Stati Uniti gli hanno tolto il sostegno». L’analista ci spiega che sia sull’ex presidente Juvenel Moïse, assassinato nel 2021, che su Ariel Henry pesano sospetti di “connivenza con le bande”. Secondo alcuni opinion-leaders, queste l’avrebbero scaricato perché non ha mantenuto le promesse fatte a loro. Lo conferma perfino un capobanda.

La classe politica è completamente screditata. A riguardo di Moïse, le opinioni sono discordanti. Secondo i suoi sostenitori, il presidente assassinato voleva davvero cambiare Haiti. Per altri, era corrotto. Nell’opinione di Adneau, la morte di Moïse è il risultato dello strapotere di un’oligarchia corrotta che controlla ogni aspetto dall’economia.

Secondo il portale specializzato InSight Crime, prima dell’omicidio presidenziale, metà del finanziamento dell’organizzazione di bande (una ventina) che “Barbecue” capeggiava, la “G9 Fanmi e Alye”, proveniva dal governo. Dopo l’assassinio, tale sostegno è diminuito del 30%.

L’aumento di potere delle gang, nate spesso come bracci armati di movimenti politici sin dai tempi del dittatore “Papa Doc” Duvalier, è dovuto proprio al fatto che stanno facendo fronte comune. Al punto che Bbq Chérizier si definisce oggi “il presidente di tutti i gruppi armati del Paese”. Viv Ansamn, la coalizione delle gang principali, è nata – secondo i proclami del suo leader, uno degli uomini con più potere reale in questo momento – per rovesciare il governo e pacificare la nazione in modo che il popolo possa scegliere chi lo governi.

Allontanato dalla polizia a causa delle suo ruolo in una mattanza coordinata insieme al alcune gang per eliminare avversari, Chérizier si difende, da questa e altre accuse, attraverso i social media, da dove recluta sostenitori e commilitoni “rivoluzionari”, ringraziando proprio i social di permettergli di riaffermare le sue buone intenzioni e combattere le calunnie dei media controllati dall’oligarchia. Senz’altro “è più popolare e vicino alla gente di altri” ammette Adneau.

La fragilità istituzionale di Haiti ha radici lontane. Nata dall’unica rivoluzione in massa di schiavi che abbia mai avuto successo, alla fine del XVIII secolo, la Repubblica di Haiti non fu riconosciuta dalle potenze coloniali dell’epoca, prima fra tutte la Francia. Dato che ciò era imprescindibile per il commercio e lo sviluppo, l’allora presidente haitiano dovette accettare di barattare il riconoscimento con un indennizzo alla Francia per la perdita di terreni e schiavi. Come “incentivo” per l’accettazione delle condizioni, navi militari francesi bloccarono i porti haitiani. I 150 milioni di franchi imposti come pagamento equivalevano a 10 volte le entrate annuali del nuovo Stato. Il debito contratto – naturalmente con una banca francese – è stato saldato solo 122 anni dopo, nel 1947.

A questa autentica ipoteca allo sviluppo si sono poi aggiunte altre sciagure, come la lunghissima dittatura dei Duvalier (padre e figlio), il terremoto del 2010, un altro nel 2021, uragani e tempeste tropicali che colpiscono l’isola praticamente ogni anno.

Jake Johnston, economista e ricercatore esperto di Haiti del Center for Economic and Policy Research di Washington (Usa) ha parlato a Bbc Mundo di una “violenza strutturale inflitta alla grande maggioranza della popolazione” che provoca una divisione netta tra i cittadini comuni da una parte e le elites e le organizzazioni internazionali dall’altra.

«Credo che sia il risultato della rottura del contratto sociale», spiega Johnston. «Lo si vede nella quotidianità, quando si vive senza acqua potabile o pulita, senza elettricità né accesso all’istruzione, alla salute e ai servizi di base. E quando si è sistematicamente esclusi dai processi politici, per decadi. Questa è la dinamica che alimenta questi gruppi armati» e che «crea molta della instabilità che vive oggi Haiti», conclude l’esperto, che, ammirato dalla resilienza della gente, parla di un Paese “dipendente dall’aiuto” in contrapposizione a tanti che lo definiscono “Stato fallito”. Johnston, insieme ad altri analisti, considera che l’aiuto internazionale è indispensabile, ma deve necessariamente coinvolgere la società civile, sin dall’ideazione delle sue modalità, perché lo Stato è in gran parte assente dalla vita dei cittadini. Basti pensare che oltre l’80% dei servizi pubblici è controllato da attori privati (ong, chiese, associazioni, banche di sviluppo…).

Per Simond Adneau, oggi ad Haiti si sta “surfando sulle onde”. L’analista non vede prospettive di cambiamenti a breve termine. Prima di tutto perché “le gang sono potenti. Sono meglio armate ed hanno più munizioni della polizia”, e poi perché “esiste troppa collusione tra queste e gli apici del potere” politico e dell’oligarchia.

Adneau, Johnston ed altri esperti sono concordi sulla necessità di cercare modalità di soluzione coinvolgendo la comunità internazionale e gli esponenti della società civile attivi sul territorio. Che sono poi i soggetti che potranno gestire gli aiuti e che dovranno essere efficacemente protetti. Un percorso in salita che richiederà tempo, e che dovrà essere impostato con grande accuratezza.

 

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