11 settembre, passi di fraternità tra rumori di guerra

Anno 2051. Un signore passeggia con il figlio nel centro di Manhattan. Vicini al luogo in cui sorgevano le Torri Gemelle, il padre dice: “Vedi? Proprio qui una volta c’erano le Twin Towers!”. Chiede il ragazzo: “Cosa sono le Twin Towers?”. Spiega il genitore: “Erano due enormi edifici che vennero distrutti all’inizio del secolo dagli arabi “. “Babbo, cosa sono gli arabi?”. La barzelletta circola da mesi negli Stati Uniti e la dice lunga su una visione semplificata dei problemi e su una soluzione definitiva al rischio attentati terroristici sul suolo americano. Fra cinquant’anni chissà quale lettura sarà data ai tragici fatti dell’11 settembre scorso, ma a soli dodici mesi di distanza prevalgono, nelle valutazioni, incertezze e timori. I servizi segreti occidentali hanno segnalato che Al Qaeda intenderebbe celebrare il primo anniversario con un altro attacco sanguinoso ed eclatante. C’è l’allarme vaiolo, quale possibile offensiva batteriologica, mentre la Cnn ha mandato in onda i filmati di esperimenti con gas velenosi compiuti dagli uomini di Bin Laden. Saranno ridotti i voli aerei e il paese vivrà in stato di allerta. Ma è il giorno della memoria per le vittime dei quattro aerei dirottati. New York ricorda le 2.823 persone scomparse nel crollo del World Trade Center. Dopo la rimozione delle macerie, è rimasta una ferita gigantesca, una sorta di enorme invaso dal fondo sconnesso, chiuso da reti e palizzate, meta costante di visitatori. L’attivismo degli uomini di Bin Laden operanti in Europa segnala nell’ultimo periodo il rischio di attentati anche nel Vecchio Continente. Ecco una delle permanenti eredità dell’11 settembre: di qua e di là dell’Atlantico si è profondamente incrinato il senso della nostra presunta sicurezza. In nome di un superiore interesse – garantire appunto la sicurezza di tutto l’occidente – l’Europa, un anno fa, si strinse intorno agli Usa per combattere militarmente il regime talebano e il terrorismo fondamentalista, con il consenso di paesi quali Cina, Russia e India. Tuttavia, la ricerca dei terroristi e le operazioni belliche in Afghanistan non hanno dati i risultati attesi. Il mullah Omar è vivo e la sorte di Osama Bin Laden è sconosciuta. Inoltre, la coalizione costituita dopo l’11 settembre sembrava anticipare un diverso contesto dei rapporti internazionali e aprire ad un nuovo ordine planetario, dettato sì dall’emergenza terrorismo ma illuminato da esigenze di collaborazione e solidarietà a diverse latitudini. Purtroppo, l’innovativa strategia è svanita una volta terminata la guerra in Afghanistan. E l’alleanza si va sfilacciando sempre più. Lo dissero subito i più lungimiranti: “Reagire all’attentato solo sul piano della forza sarebbe un terribile errore. Dobbiamo imparare da questa tragedia e aprire nuove strade per la costruzione della pace”. In questi giorni di consuntivi e riflessioni, va allora detto con onestà intellettuale e coraggio politico che nel momento in cui è diventato evidente che la libertà e la forza non bastano, la fraternità deve diventare il metodo delle scelte politiche. L’11 settembre 2001 può segnare l’inizio di un incubo permanente per buona parte del pianeta. Oppure, indurre ad un cambiamento di rotta nella politica mondiale. I capi di stato e di governo sono davanti al bivio. Ma sappiano che non sono soli. Tanta gente li sta precedendo sulla via della fraternità universale. E un corretto dialogo interreligioso sta offrendo insostituibili apporti. Le corrispondenze, qui di seguito, da due punti focali come gli Stati Uniti e il Pakistan illustrano i passi compiuti.

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