Palestina-Israele, il conflitto che nessuno vuole

In Medio Oriente è riesplosa la crisi che sembrava sopita. Cosa c’è dietro gli episodi di questi giorni?
(AP Photo/Nasser Nasser)

«Può avere senso cercare di togliere priorità alla questione israelo-palestinese visti tutti gli altri problemi nella regione e nel mondo, ma anche se scegli di ignorarlo, questo problema non ti ignorerà» (Ghaith al-Omari, senior fellow Washington Institute for Near East Policy).

Il riaccendersi del conflitto era nell’aria da almeno un mese, dall’inizio di Ramadan, quando l’esercito israeliano ha transennato per non meglio precisate “ragioni di ordine pubblico” l’accesso alla Porta di Damasco, a Gerusalemme, il luogo di ritrovo dei giovani musulmani in questo periodo. Poi ci sono stati gli sfratti di famiglie palestinesi a Sheikh Jarrah (che era il medico del Saladino nel XIII secolo), un quartiere di Gerusalemme est, dove da decenni cresce la rivendicazione di alcune associazioni ebraiche. Secondo i palestinesi quelle case sono di proprietà (documenti alla mano) di famiglie palestinesi almeno dal 1956, ma famiglie arabe (non solo musulmane) si insediarono in quella zona fin dall’inizio del 900.

Attualmente ci vivono 38 famiglie palestinesi in mezzo ad un recente insediamento israeliano. Ma secondo due associazioni ebraiche, che hanno intentato causa da decenni, la regione era di proprietà di ebrei sefarditi fin dal 1885, al tempo dell’Impero Ottomano. E comunque nel 1967 il luogo è stato conquistato dall’esercito israeliano e quindi i palestinesi se ne devono andare. La causa è in dirittura d’arrivo alla Corte Suprema. E le associazioni ebraiche non hanno di fatto mai perso una di queste cause. Intanto ci sono stati attacchi, violenze, morti e feriti, perché l’esercito israeliano ha cominciato a presidiare Sheikh Jarrah per “evitare” disordini.

Scontri, spari e morti anche in Cisgiordania, in particolare a Nablus e Jenin. Sono alla fine arrivati anche gli scontri durante la “Notte del Destino” sulla spianata delle moschee, dove si erano riunite decine di migliaia di fedeli musulmani. E meno male che la polizia ha vietato l’ingresso di una manifestazione di ebrei religiosi alla spianata delle moschee (che per i nazionalisti ebrei intransigenti è il Monte del Tempio).

A tutto questo si è aggiunto l’ultimatum di Hamas, puntualmente disatteso, che ha provocato lanci di missili (alcune centinaia) dalla Striscia di Gaza verso Gerusalemme e Tel Aviv, e relativa risposta con ripetuti bombardamenti della Striscia. Ancora morti, feriti e molta indignata retorica reciproca sui colpevoli, ecc. L’aeroporto di Tel Aviv è stato chiuso, e l’escalation per adesso sembra non conoscere tregua.

Evidenti e di rito proteste, dichiarazioni, raccomandazioni, ingiunzioni e minacce internazionali. In realtà si ha l’impressione che questo eterno conflitto non lo voglia nessuno, ma che allo stesso tempo faccia comodo a più di qualcuno. Naturalmente con letture diverse e variegate che vanno dalle posizioni dei fondamentalisti ebrei: fuori tutti gli arabi dalla nostra terra, a quelle dei vari islamismi: fuori tutti gli ebrei dalla nostra terra. Che è comunque sempre la stessa terra. Come se evocando l’eliminazione del nemico si potesse annullare il conflitto e quindi evitare di affrontare la realtà. In mezzo a questi estremi c’è la vasta gamma di paesi, istituzioni e potenze varie, soprattutto fuori, che si guardano bene dal fare qualcosa di concreto, ed altri, soprattutto dentro, che ne approfittano per stornare l’attenzione da problemi che per ora non vogliono o non riescono o non intendono affrontare.

In Italia fino a qualche giorno fa si evitava di parlare, in particolare sulla stampa, del rischio di una terza intifada, forse nell’illusione che le cose si aggiustassero da sole. Chi ha cercato di smuovere le acque è stata la ottantenne pasionaria di sinistra, ed ex vicepresidente del Parlamento europeo, Luisa Morgantini, che ha scritto due lettere aperte alla stampa nazionale, in cui elenca le ragioni dei palestinesi con appassionata partecipazione.

Sulla vicenda ci sono a mio avviso in questo momento tre pesanti nodi irrisolti che, si potrebbe dire, si nascondono dietro al dito degli scontri.

Il premier Netanyahu che non è riuscito a formare il governo dopo la quarta tornata elettorale mentre incombono i processi per corruzione e gli avversari politici si sentono più vicini alla sua estromissione tramite l’invenzione di alleanze più o meno magmatiche.

I palestinesi, da parte loro, hanno rinviato per l’ennesima volta le elezioni in seno all’Autorità Nazionale Palestinese (sono 15 anni che rimandano), con ciascuna delle due anime (Fatah e Hamas) che dà l’impressione di non voler cedere posizioni e territori.

Sullo sfondo internazionale, infine, grava la questione del nucleare iraniano che gli Usa (e i paesi arabi allineati) vorrebbero ricomporre in qualche modo, mentre il governo israeliano (di qualsiasi orientamento sarà) è decisamente contrario a qualunque accordo.

Su questi nodi, e sullo scontro in corso dietro al quale si nascondono, spiccano in modo scoppiettante le dichiarazioni anti-israeliane di Erdogan e rifulge la bonaria assenza dell’Unione europea.

 

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