Willem Dafoe, intenso van Gogh

Un altro personaggio difficile per l'attore diretto da Julian Schnabel. Rimarchevole anche l'"Opera senza autore" di Florian Henckel von Donnersmarck sulla storia della Germania dal nazismo agli anni sessanta.

Certo che Willem Dafoe ha davvero la vocazione per i personaggi difficili. Ricordate L’ultima tentazione di Cristo e il recente, incompreso, Pasolini di Abel Ferrara? Questa volta, complice il pittore e regista Julian Schnabel, in At Eternity’s Gate, diventa anima e corpo van Gogh.

Il film non è una biografia autorizzata, ma l’intento è quello di entrare nell’interiorità del pittore attraverso i suoi quadri, di cogliere la sua necessità di far sua l’eternità attraverso la bellezza, che è nella natura che è Dio. Di qui una pittura che è scultura, vita.

Grazie al regista e alla fotografia perfetta di tele e di paesaggi, veniamo immersi nella dimensione onirica e mistica di questo folle carismatico, che lavora per il futuro, consapevole di essere per il suo tempo inattuale, dunque incompreso (di qui il dissidio con Gauguin). La regia punta quindi non ad un docufilm di belle immagini, ma ad uno scavo del “vero” van Gogh nei suoi rapporti umani (il fratello, il medico), nell’affanno e poi nello stupore creativo e forse più che nel suicido, nell’omicidio (tesi da dimostrare). Ma importa fino ad un certo punto.

Schnabel ci svela un grande disperato e ricercatore di eternità collegabile sotto certi aspetti al nostro Giacomo Leopardi. Dafoe meriterebbe il Leone come miglior attore.

Ancora un artista, ma stavolta un pittore nato nella DDR e poi emigrato a Bonn,  attraverso la regia tesa e chiaroscurata di Florian Henckel von Donnersmarck nel film Werk ohne Autor (Opera senza autore), ci fa rivivere la storia tedesca dal nazismo agli anni Sessanta. Storie di stragi, di amori contrastati, di delitti, di ex criminali nazisti sfuggiti alla giustizia, di paure, insieme alla ricerca dell’arte come fonte di verità sull’uomo.

Rigoroso, ritmico come un polittico, recitato alla grande, il film con i suoi 188 minuti non stanca grazie al controllo visivo e attoriale. Diventa un epos che ha il coraggio di fare i conti con il passato (quando lo faremo noi italiani?) ed è un canto alla libertà dell’arte e dell’amore fedele (la coppia dei due giovani sposi osteggiati dal padre di lei, ex nazista). Perciò, opera senza autore, perché l’autore è il tempo che forma la storia dei singoli e dei popoli in cui ciascuno fa le sue scelte di vita, allora come oggi.

E a proposito di storie – quante in questa Mostra!- segnaliamo il retorico Tramonto dell’ungherese Làzslò Nemes che narra  la Budapest del 1914 attraverso la vicenda da thriller di una modista, il lussuoso e molto commerciale Vox Lux di Brady Corbet su una popstar negli anni dal 1999 al 2017 in parallelo con le vicende degli Usa (Natalie Portman protagonista) e l’argentino Acusada di Gonzalo Tobal, classico film giudiziario con una ragazza accusata di aver ucciso un’amica, un padre stroppo protettivo e la pressione dei media. Film sempre tecnicamente perfetti, ma che vanno sul già visto.

 

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