Visita “non professionale”

Un omicidio, una malattia psichica, l'esplosione di un fornelletto…

Sono avvocato e da tre anni assisto un cliente accusato di omicidio volontario per avere ucciso la madre davanti agli occhi dei figli. Lui è in realtà affetto da una malattia psichica che però, secondo i periti del tribunale, non ha avuto una incidenza causale sul fatto commesso.

 

Il caso è per me di grande interesse perché mi dà modo di affrontare, nei diversi gradi di giudizio, diverse questioni giuridiche, anche con risultati soddisfacenti sul piano professionale. In questi anni, però, ho sempre cercato di non smarrire mai l’attenzione alla persona, concentrandomi troppo sulle carte processuali.

Proprio di recente il mio assistito, che sta attraversando una grande depressione perché gli è stato vietato di incontrare i figli per un periodo, è stato ricoverato in ospedale a seguito di un incidente in carcere: essendo scoppiato il fornelletto da campeggio con cui cucina assieme ai compagni di cella, lui ha riportato ustioni di primo e secondo grado.

Siccome per motivi meramente burocratici ai familiari del detenuto non sono arrivate le autorizzazioni per andarlo a trovare in carcere, mi sono attivata subito per sbloccare la situazione, ma nell’attesa ho ricevuto una sua lettera in cui, sfiduciato, si chiedeva quali motivi avesse ancora per vivere uno come lui, che doveva scontare ancora quattro anni in carcere per un fatto così grave; tanto più che la nostra ultima istanza di arresti domiciliari in comunità era stata rigettata, aveva ustioni sul tutto il corpo e non poteva più vedere i figli.

Ogni volta che ricevo una sua lettera, mi chiedo sempre se sarà l’ultima, visto che l’anno scorso ha tentato il suicidio.

 

Non avevo alcun motivo “professionale” per andare a trovarlo in ospedale, considerato anche tutto il lavoro che c’era da fare a studio. Ma ho sentito che in quel momento io ero l’unica persona che poteva accedere alla sezione protetta dell’ospedale per fargli una visita.

Questo è bastato a farmi andare, rinunciando alla prevista pausa pranzo con alcuni colleghi-amici, non senza timore per lo stato psicofisico in cui lo avrei trovato. Stupito di vedermi, mi ha mostrato le bende, scusandosi perché non si era fatto la barba. Era depresso e dolorante. Gli ho chiesto come era accaduto l’incidente e lui mi ha raccontato che stava facendo il “sugo all’amatriciana” per i compagni di cella quando, nel tentativo di aggiustare il fornelletto, c’era stato un forte boato ed una fiammata lo aveva investito agli arti inferiori e superiori (d’istinto aveva protetto con il suo corpo il giovane compagno di cella).

Ma allora – gli ho detto – non era vero quello che mi aveva scritto, e cioè che «non serviva più a nessuno in carcere»: anche se detenuto, poteva fare qualcosa di buono per qualcuno, come proteggere, con il suo corpo, il compagno di cella.

Dopo un breve silenzio, mi ha sorriso e dato ragione, aggiungendo anche che dopo l’incidente, invece di preoccuparsi per lui, i compagni avevano mangiato la pasta! Quando l’ho salutato ero serena, non avevo più sul cuore quel peso che mi accompagna ogni volta che devo entrare in carcere per parlare con lui.

Quella visita apparentemente senza motivo m’è parsa importante quanto le tante ore passate a studiare il processo e forse ancora di più. Tornando in studio, pensavo: «Forse un sorriso donato a chi non spera più, agli occhi di Dio, vale più di tante brillanti discussioni in aula».

Alessia S. – Roma

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