Vicine e lontane periferie al centro

Sono appena tornato da un Brasile che sta cercando di entrare nel club dei potenti, nonostante le evidenti contraddizioni di uno sviluppo che non è riuscito a debellare la piaga delle favelas. Certo, di sforzi il presidente-operaio ne ha fatti, ma i grumi di miseria continuano ad apparire dove meno te l’aspetti, negli interstizi e nelle pieghe dei centri delle città. Il fenomeno non è solo brasiliano, tutt’altro. Ne ho trovate ovunque di bidonville e slum, cioè di baraccopoli. Sotto i viadotti di Karachi, dove migliaia di indù sopravvivono protetti da teli bucati; a Mumbai, dove si cerca di smantellare lo slum più esteso del mondo, Diwali, due milioni di uomini e donne protetti da cartone e plastica; e poi Nairobi – tutti l’abbiamo visto -, Kibera,Mathare, Korogocho. Ma anche nella nostra civilissima Europa ce ne sono: quella mobile e sotterranea dei bambini abbandonati delle vie centrali di Bucarest; oppure, più vicino, a Genova, che nasconde dietro al porto scintillante di Piano i carruggi degli immigrati, nei cui tuguri lebbra e Tbc, e non solo Aids, mietono vittime. Potrei continuare con i pensionati che vendono la fede nuziale per arrivare a fine mese, i quarantenni precari che non sono bamboccioni ma emarginati da precarietà. E come dimenticare le periferie del mondo, lembi inquieti di terra ai margini dei centri del potere: il Kosovo (periferia balcanico-europea), il Caucaso (periferia dell’impero russo), il Kurdistan (periferie dei piccoli imperi turco, iraniano e di quello conteso iracheno)? Eppure nei temi della nostra campagna elettorale si parla molto poco di periferie, vicine e lontane. Si preferisce parlare di centro; è quasi una ossessione, un ritornello rassicurante, un utero capace di proteggerci col suo liquido amniotico dalla paura liquida di Bauman. Forse per reazione al crollo del socialismo reale e della enfasi militante posta sui proletariati ci si centra al centro. Si fanno discorsi di centro, moderati, anche per reazione al condizionamento delle estreme. Ma questo comprensibile, lecito e forse necessario accentramento sembra emarginare, assieme alle periferie del Parlamento, anche quelle della società reale, dei miseri, le sacche di disperazione e solitudine. Per tutti i politici – in primis per quelli cristiani – dovrebbe invece essere un imperativo categorico, certo non il solo ma indispensabile, quello di rimettere al centro del dibattito le periferie del mondo, tutte, quelle sotto casa e quelle allo sprofondo. Non aspettiamo programmi patinati, ma impegni precisi.y

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