Via dei Fori libera e non solo dal traffico

Cosa significa rendere pedonale quest'arteria? Il sindaco Marino riuscirà laddove altri hanno fallito? Pubblichiamo la prima parte dell'intervista all’urbanista Carlo Cellamare, dell'università La Sapienza, per andare insieme alla scoperta della storia recente della Capitale
Roma via dei Fori imperiali

Dalla periferia della Tiburtina a Roma, accanto al quartiere San Basilio e a un passo dal raccordo anulare, nel paesaggio di una campagna scomparsa sotto il cemento e l’asfalto, si possono impiegare, con i mezzi pubblici, 50 minuti per arrivare alla fermata metro del Colosseo, dove inizia la “via dell’Impero” voluta dal Mussolini urbanista degli anni ’30.   

Il giorno dell’insediamento del nuovo sindaco della Capitale, Ignazio Marino, è stato questo il percorso seguito da una giovane, di professione estetista, ma senza lavoro, che è partita dalle case occupate da alcune famiglie di sfrattati per andare a manifestare la necessità di avere abitazioni a costo accessibile in una città dove, da sempre, i prezzi delle abitazioni sono determinati dai forti interessi dei costruttori che hanno segnato in modo irreversibile il volto del territorio. La giovane manifestante, disoccupata e senza casa, purtroppo è finita all’ospedale per le manganellate ricevute durante gli scontri con la polizia, mentre i turisti si muovevano nel traffico che avvolge la preziosa zona del foro romano.

La geografia urbana di Roma si spiega con la sua storia recente segnata anche dal protagonismo di alcuni ambientalisti che hanno inciso nelle scelte pur restando una minoranza. Emblematico il caso della salvaguardia di quello che è ora il Parco dell’Appia antica grazie all’impegno di Antonio Cederna e pochi altri. La resistenza contro i “nuovi vandali” è riuscita a salvare, ad esempio, l’area delle catacombe di san Callisto sopra la quale, nel dopoguerra, si voleva edificare un grande stadio sportivo. È rimasto invece senza seguito, finora, il progetto di Cederna di liberare dalle auto proprio quel pezzo unico al mondo costituito dai resti dell’antica Roma, tra i Fori e il Colosseo, sede di un quartiere storico eliminato dal piccone del regime fascista proprio per aprire la strada imperiale che doveva celebrare i fasti del nuovo Impero.

Gli eredi degli abitanti di quel pezzo di Roma sparita, ormai popolano le periferie come San Basilio mentre la via dei Fori è rimasta dedicata al traffico e alle parate militari dell’Italia repubblicana. Il nuovo sindaco di Roma, abituato a ragionare da chirurgo che deve intervenire in tempi brevi, ha dichiarato che intende salvare quest’area dalla circolazione veicolare riuscendo nell’impresa rivelatasi impossibile per altri primi cittadini già determinati e convinti come Petroselli e Argan. Marino ce la farà? Chi comanda davvero sulle città? E che senso può avere una scelta del genere nel 2013?

È il senso delle domande che abbiamo posto a Carlo Cellamare, professore di Urbanistica alla facoltà di ingegneria dell’università “La Sapienza” di Roma, che conosce molto bene il centro come i margini della metropoli. Lo storico palazzo della facoltà si pone sul colle che sovrasta la zona. “Fare città, pratiche urbane e storie di luoghi” (Eleuthera, 2008) è il titolo del suo libro che documenta una ricerca fatta sul campo nel centro di Roma sotto il segno della partecipazione dal basso. Tema ripreso in maniera sistematica, su identità e senso dei luoghi, nel più recente “Progettualità dell’agire urbano. Processi e pratiche urbane” (Carocci, 2011).

Il nuovo sindaco di Roma si è lanciato in una promessa che pare difficile da mantenere, anche se l’obiettivo è già fissato per fine luglio: rendere pedonale l'intera area dei fori imperiali. A quale idea risponde questo progetto e perché non è stata realizzata finora?
«Come è stato ben illustrato da importanti storici urbani di Roma (nonché intellettuali molto coinvolti e appassionati della loro città) come Italo Insolera e Antonio Cederna, via dei Fori Imperiali è stata aperta durante il fascismo rispondendo a diversi obiettivi. In primo luogo, rispondeva ad un’idea del regime come espressione e ripresa della Roma Imperiale. Aveva quindi un obiettivo anche propagandistico, ovvero di affermazione che il nuovo regime fascista riprendeva, nell'ottica della continuità, quei caratteri che erano della Roma Imperiale. Ma anche semplicemente il fatto che vi fosse un grande viale che congiungesse Piazza e Palazzo Venezia e il famoso “balcone” (simboli e riferimenti del regime fascista) con il Colosseo e altri monumenti della Roma Imperiale (con un altrettanto forte valore simbolico) era l’affermazione del linguaggio della magniloquenza, che peraltro non era estraneo a qualsiasi altro regime. Si pensi agli interventi di Haussmann a Parigi o ad altre situazioni vissute in differenti capitali europee. Tutti questi simboli della Roma Imperiale dovevano essere lo sfondo e il contesto di qualsiasi discorso politico della quotidianità del regime».

Non c’era altro ?
«C’era poi, nella cultura dell’epoca (ma non in tutta: alcune voci critiche comunque si alzarono, anche se flebili) un’interpretazione della valorizzazione del patrimonio storico-archeologico in termini monumentali: non interessa il tessuto storico e la stratificazione di una città, quanto isolare i suoi elementi maggiormente appariscenti e considerati di maggior prestigio e valore, isolandoli da tutto il contesto».

Come si può valutare questa impostazione?
«Dal punto di vista storico-culturale questo approccio è aberrante e mina la qualità stessa del patrimonio storico-archeologico che si vuole valorizzare, tant’è vero che i Fori Imperiali che vennero riportati alla luce, vennero anche rapidamente ricoperti per costruire il grande viale. Questi approcci di fatto giustificarono molte azioni distruttive e vennero usati strumentalmente. Fortunatamente, peraltro, i progetti del regime, con la costruzione di alcuni edifici monumentali in stile fascista, non vennero portati a termine».

Ma non c’era anche un altro obiettivo urbanistico?
«Ultimo, ma non per importanza, obiettivo è stato il radere al suolo tutto il quartiere dei Pantani e di via Alessandrina (una grande parte del rione Monti) che occupava l’area, parte di quella Suburra non solo di più bassa qualità edilizia e sociale (che bisognava spazzare via per rendere più bella la capitale fascista), ma anche covo di oppositori del regime e di una classe subalterna inquieta, troppo vicini ai luoghi del potere. Pulizia edilizia e pulizia sociale. Molti dei residenti di quei quartieri finirono nelle borgate nascenti».

(Continua)

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