Venezia premia la “Pieta”

Leone d’oro al film del sudcoreano Kim Ki-duk e argento all’americano “The Master”. Un’edizione sobria sui grandi temi. Italia in sordina.
Premiazione a Venezia

C’era una certa malinconia al Lido, quest’anno, tra sole, nebbie e piogge, come in una tela del Guardi. Meno otto per cento di presenze, 76 film a differenza dei 140 dell’edizione 2011, meno feste e glamour. Meno divi, anche se uno come Robert Redford, 75 anni, basta da solo ad affascinare mezzo mondo.
In compenso, si potevano vedere i film senza code interminabili, pensarci su e non dar troppo peso ai minuti di applausi in sala – talora provocati da una fornita claque – e passare da maestri come Malick, Brian de Palma, Bellocchio e de Oliveira a registi come Paul Thomas Anderson (The Master), Olivier Assayas (Après mai), Ramin Bahrami (At any price)… e, perché no, il nostro Daniele Ciprì: gente che pensa, osserva e ha qualcosa da dire.
 
I grandi temi
 
 
Il festival 2012 è stato uno sguardo lungo, attento, sulla desolazione del mondo. Non ci sono più certezze, tutto è andato in frantumi – anche il mitico ’68 e dintorni –, e pare che sia il denaro l’ossessione comune. Dallo spietato aguzzino del film Pieta, al guru sofisticato di The Master; dal possidente agricolo di At any price al povero diavolo di È stato il figlio, di Ciprì, fino al quartetto di ragazzine americane in Spring Breakers, di Harmony Corine, disinibite anche di fronte alla morte.
Ecco, la morte, l’altro grande tema della rassegna. Brutale sempre nel film di Kitano, ma, seppur in forme meno cruente, è morte psicologica quella che il francese Xavier Giannoli fa vivere ad un innocuo operaio in Superstar. Un povero anonimo che i media astutamente glorificano a star, togliendogli l’anima. O è nostalgia di ideali perduti nei giovani d’oggi interpreti di Après mai sugli anni Settanta, o tristezza nel ritorno a casa dei soldati portoghesi che hanno vinto Napoleone in Linhas de Wellington, come è una specie di morte l’ossessione religiosa di una donna cattolica nel discusso – e discutibile, anche come Premio della Giuria – Paradise: Feith dell’austriaco, piuttosto incattivito, Ulrich Seidl.
La religione come fenomeno disturbante occupa, infatti, una certa parte della filmografia presente a Venezia, sia nei film israeliani sulle famiglie rigidamente ortodosse sia nel clima pseudoreligioso delle sette, di cui fornisce un notevole esempio The Master, in un duetto formidabile di attori (Coppa Volpi per entrambi), cioè Joaquin Phoenix e Philip Seymour Hoffman, ossia il fragile giovane alcolizzato e il raffinato guru alla Scienthology. Insomma, spesso religione fa rima con superstizione e fanatismo (lo è pure il personaggio della cattolica integralista nel film di Bellocchio).
Eppure, l’occhio che guarda questo mondo di vittime senza amore e libertà – l’occhio del cinema, cioè – nelle sue visioni migliori è pieno di compassione, appunto di “pietà” . To the Wonder, di Malick – forse incompreso, perché troppo “alto” – , è una visione dell’amore nei suoi lutti e nelle sue certezze, belle e tremende come la natura, ma sempre con la possibilità di una rinascita. Così come lo è il film vincitore di Kim Ki-duk, parabola sotto certi aspetti cristologica di percorso dal buio della crudeltà alla scoperta dell’amore e fino al sacrificio. Un tema affrontato nel dolce film filippino Sinapupunam su una donna matura senza figli, teneramente innamorata del marito, purtroppo rimasto senza riconoscimenti.
 
E l’Italia?
 
Si è discusso intorno al mancato premio al film di Bellocchio. Il quale però l’anno scorso aveva avuto il Leone d’oro alla carriera… Il film è intenso, ossuto, imperfetto, recitato molto bene e certo un riconoscimento gli andava fatto. L’ha avuto, grazie al Premio Mastroianni al giovane attore Fabrizio Falco, interprete di razza. Quanto a Un giorno speciale di Francesca Comencini, al di là della simpatia dei giovani attori, si tratta di un lavoro più da televisione che da cinema e non troppo nuovo nella tematica, mentre È stato il figlio, di Ciprì, forse meritava più del Premio Osella.
Ma non facciamone drammi. Giustamente i cronisti stranieri ci hanno suggerito di guardare un po’ più in là dell’Italia. A Venezia c’è il mondo.

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