Venezia chiude senza slanci

Tarantino premia il film di Sofia Coppola e dimentica l’Italia. Nessuna menzione alle produzioni di casa nostra: « forse piccole, poco spettacolari e provocatorie, ma ancora capaci di grande poesia».Dal nostro inviato.
Sofia Coppola Mostra di Venezia

Edizione triste, piovosa quasi sempre, la 67ma. Ma la tristezza viene dal verdetto pronunciato dalla giuria presieduta da Quentin Tarantino, cui partecipavano anche i nostri due registi siciliani Gabriele Salvatores e Luca Guadagnino. Il Leone d’oro a Somewhere di Sofia Coppola è sembrato eccessivo, come pure il Leone d’argento alla regia ad Alex de la Iglesia per la sua Balada triste de trompeta.

 

Non che siano brutti film, almeno quello della Coppola: girato bene, da professionista di classe come sempre, una storia anche commovente. Barocco, surreale, molto “tarantiniano”, quello di de la Iglesia. E qui tocchiamo la nota dolente di questa edizione.  Quentin è certo un autore a suo modo geniale, anche se , secondo molti, sopravvalutato. Ma la sua forte personalità, la voglia di stupire, a dispetto delle dichiarazioni di unanimismo fornite da lui stesso – con gestacci di dubbio gusto verso i giornalisti che non erano d’accordo – ha dominato la giuria, che ha premiato di fatto la “casa tarantiniana” (la Coppola è la sua ex fidanzata, e il Leone d’oro per l’opera è andato a Monte Hellen, il regista che l’ha lanciato).

 

La giuria ha completamente dimenticato i film d’arte. Ma non è questa di Venezia una “mostra d’arte cinematografica?”. Ignorati invece film di forte spessore umano e artistico come Ovsyanki del russo Aleksei Fedorchenco, un pellegrinaggio amoroso di un uomo che con un amico porta la moglie defunta al sepolcro nella Russia nord-occidentale; o come La fossa del cinese Wang Bing, coraggioso (lo si vedrà mai in Cina?) e desolato racconto sulla vita in un campo di rieducazione maoista. In concorso, invece, si sono visti film o di sicuro impatto commerciale (il francese Potiche, l’americano Barney’s Version) o presuntuosi (il francese Happy few e il tedesco Drei), i quali, o per la brillantezza degli attori o per il messaggio inutilmente provocatorio, non avevano forse bisogno della pubblicità del concorso.

 

Ma, bisogna dirlo, ogni anno la mostra veneziana inghiotte decine e decine di film adatti ad ogni palato, perché così piace al direttore Mueller. Anziché selezionare e ridurre, si amplifica. Ragioni economiche, voglia di prender tutto, bisogno di non esser da meno di Cannes e di Roma? Chissà. Con l’enorme fatica della scelta da parte degli spettatori, che puntano ovviamente al facile e pure degli addetti ai lavori, costretti dall’organizzazione (code e orari…) ad un ritmo da sfinimento.

Insomma, la mostra è calata di tono. Poche vere star – molte ormai vanno a Montreal, dove si spende di meno, fra l’altro -, folla di convegni piccoli e grandi, gente, giovane soprattutto, che va e viene in un Lido dove tutto costa ogni anno più caro.

 

Infine, l’esclusione, a nostro parere ingiusta, dell’Italia. Presente con 41 lavori nelle varie sezioni, non ha vinto praticamente nulla a livello internazionale. Ed è dal 1998 che il Belpaese non riceve un Leone d’oro. Davvero i film di Martone, Costanzo, Celestini e Mazzacurati non meritavano nessun premio, almeno ad un attore? Certamente, si tratta di lavori diversi tra loro, molto italiani come stile e contenuto: ma la recitazione di alcuni attori è grande (si pensi alla sola Alba Rohrwacher) e l’originalità (penso al film di Martone e Costanzo) notevole. Forse la giuria internazionale, pensando al cinema italiano che fu, non ha grande stima per quello del presente, (Tarantino sembra averlo ammesso). Che è, se si vuole, piccolo – l’Italia è un paese ora di “anime piccole” – ma capace ancora di un po’ di poesia. Perché allora spegnere ciò che in qualche maniera ne è un bagliore, in Italia e fuori Italia, in favore di opere-spettacolo?

Speriamo in meglio per il 2011.

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