Vecchi o giovani? I precari quarantenni

Il contributo di un lettore impegnato nel campo del sindacato davanti alla crisi del lavoro e all'incertezza anche delle categorie cosiddette tutelate
precari

Osservando ciò che accade costantemente da qualche anno nel mondo del lavoro, alla luce di crisi, ristrutturazioni, riconversioni, delocalizzazioni e conseguenti licenziamenti, cassa integrazione, mobilità più o meno lunghe, la domanda sorge spontanea: si può essere ancora precari a quarant’anni? Mi riferisco a tutti quei lavoratori che, superata la quarantina, vengono espulsi dal ciclo produttivo, con conseguente precarietà e incertezza sul futuro proprio e delle rispettive famiglie.

Siamo di fronte ad una vera e propria emergenza, tanto che il Censis recentemente li ha definiti “nuovi poveri”: infatti, nonostante si parli di riconversione e riqualificazione come difesa attiva del posto di lavoro, difficilmente riescono a ricollocarsi anche se dotati di una specializzazione, perché la cultura liberista ed efficentista li considera vecchi, poco flessibili, e quindi non in grado di soddisfare gli eventuali incrementi di produttività.

Tentativi di affrontare questo problema ne sono stati fatti, attraverso accordi sindacali, corsi, convenzioni, ma i risultati non sono stati sempre coerenti con le attese. Più volte anche la Cei, attraverso l’ufficio di pastorale sociale e del lavoro, ha levato la sua voce per sensibilizzare a questa problematica, insieme al tema del precariato dei giovani.

I cosiddetti ammortizzatori sociali servono in maniera provvisoria ad attenuare il peso di una condizione frustrante e umiliante, e anche quando a causa dell’età riescono ad accompagnare alla pensione nulla tolgono alla sensazione di sentirsi inutili ed assistiti. Molte famiglie, soprattutto se monoreddito, di fronte a questa situazione vanno in crisi: a me è capitato di conoscere qualcuno che ha pensato al suicidio di fronte al mutuo da pagare e ai figli da far studiare. I costi in termini umani e sociali sono enormi: molti sono costretti a ricorrere al lavoro nero, con conseguente sfruttamento, sottopagati e ricattati da "imprenditori" senza scrupoli.

All’interno di questa riflessione, insieme alle famiglie monoreddito, vorrei collocare altre due figure che maggiormente subiscono questa realtà: gli invalidi e le donne. Gli invalidi in genere sono i primi ad essere espulsi: non è raro che si preferisca pagare la sanzione per la non ottemperanza della legge 68 sul collocamento degli invalidi, piuttosto che adeguare la percentuale degli stessi alla normativa. Per quanto riguarda le donne, sono due le maggiori questioni: la mancanza di reali pari opportunità di sviluppo professionale e di carriera, salvo rare eccezioni, e di difesa della maternità, soprattutto nel settore privato. Spesso una gravidanza è vista come un ostacolo per la prosecuzione del rapporto di lavoro, tanto che nei colloqui di assunzione domandano «ma sei sposata?». Non molto tempo fa uno studio della Cisl Toscana ha messo in risalto come nei luoghi di lavoro contrattualmente più tutelati il tasso di natalità è praticamente doppio rispetto al resto, mettendo in evidenza quanto è importante sopratutto per noi laici cattolici non fermarsi alla semplice difesa di principi importanti, ma cercare ognuno con la propria responsabilità di calarli nella complessità della vita e della società organizzata trovando le giuste mediazioni.

Per concludere, ritorno alla domanda iniziale: stando così le cose, aumenterà in maniera significativa il numero di coloro che (prevedendo per il futuro un innalzamento dell’età pensionabile) saranno troppo giovani per la pensione e troppo vecchi per rientrare nel mercato del lavoro. Occorre quindi da parte di tutti una riflessione seria e puntuale sul valore del lavoro e della responsabilità sociale dell’impresa, molto spesso declamata ma poco praticata. Penso sia una via obbligata, se vogliamo veramente mettere la dignità dell’uomo e la sua promozione al centro del nostro agire economico e sociale.

 

Alfonso Di Sandro

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