Uno stradario immaginale

Simboliche

«La Simini è alla finestra!», urlò trotterellando verso di noi.

Pagnotta era buffissimo. Di corsa i piedi nei buchi del cemento. Uno e due. Precisi. Ecco saltato il muro del campetto. La siepe con le palline verdi e rosse dentro non faceva più quell’odore fortissimo così emozionante: l’estate era finita.

Fu allora che oltre la siepe e le sbarre nere a punta e dietro la zanzariera tutti potemmo vedere la sagoma scura della vecchia. Ricordavamo l’odore di armadio chiuso e poltrone polverose che ci aveva quasi stordito quando la figlia della vecchia ci aveva aperto perché la palla era finita nel giardino (molto più spesso, infatti, si faceva la conta per chi avrebbe dovuto avventurarsi da solo, in una corsa rapida, superando le micidiali sbarre nere a punta nello stretto giardino che circondava il pianterreno); ma era davvero impossibile capire quanti anni avessero la vecchia e le sue figlie e se un uomo, a parte il nipote più grande, fosse mai vissuto in quella casa.

Rimanemmo per una buona mezz’ora decidendo chi o che cosa la vecchia stesse osservando, per questo passavamo davanti alla finestra del pianterreno facendo le facce, e quando Pagnotta urlò: «Natale con i tuoi, Pasqua con chi vuoi!», credetti di morire dal ridere.

Saranno state le cinque e ormai la vecchia non faceva più effetto, quando dall’inizio della curva spuntarono i capelli lunghi e il maglione infeltrito del Monteverde: era più grande, lui, e le nostre facce non lo facevano ridere, però noi avevamo saputo che con altri cinque, in casa vecchia, avevano vestito Gianni Trapani con un lenzuolo e fino alle undici di sera, nella casa diroccata nel bel mezzo dei nostri palazzoni, imperversò L’Omino Bianco! Tutto ciò era avvenuto secoli prima, probabilmente l’inverno scorso, ma preciso era ancora l’odore degli arbusti tagliati dal babbo di Marco che noi bruciavamo nella nostra prodigiosa stufetta.

Il tramonto di novembre ci portò col Monteverde colui che poi capimmo essere un girovago musicista e trovatore, un rivoluzionario, insomma, che s’intende di coltelli e motorini e magari d’esplosivo… Proprio per questo, forse, egli capì all’istante che tra noi e la vecchia c’era da superare il fossato immaginario tra luce e tenebre, tra le regole misteriose degli adulti e i nostri giochi incomprensibili. Una siepe di oleandro con bacche verdi ma rosse dentro, profumate d’estate. Spiccò il salto cantando la colonna sonora: «Scion scion pa ra pa pa, scion scion»… Allora sapevamo ancora esultare, e l’esultazione fece esplodere una risata che era dinamite pura. Ma la risata si trasformò in un sospiro di stupore ed orrore quando, rivoltandoci verso le cortine grigie del pianterreno, appuntammo più e più volte gli occhi sul gesto della mano ossuta della vecchia che – ohibò – appoggiata al vetro ci puntava contro l’indice e il mignolo tesi in una temibile maledizione. Ma anche quella divenne una risata, il Monteverde senza scomporsi riprese la via di casa mentre il tramonto sfrigolava le sue scintille arancioni verso ovest e un verde mai visto circondava i palazzi. Poi le mamme riempirono di odori e rumori tutte le cucine dove ogni serata puntualmente naufragava e tuttavia, prima di cadere nel sonno, molti di noi sorridevano rivedendo al rallentatore il dinoccolato rivoluzionario sparare le sue cartucce di parole contro la fortezza degli adulti.

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