Un’inodazione di solidarietà

La telefonata dura già da più di un’ora. Chi l’ha iniziata – chiama dall’ovest della Germania – neanche pensava di trovare ancora una persona in ufficio a quest’ora, le 21,30 di sera. Neppure si conoscevano: da questa parte l'”occidentale” della Renania con l’offerta di una somma notevole per le vittime dell’alluvione, e dall’altra parte, lì nel municipio di Grimma, la cittadina diventata famosa in questi giorni per la distruzione che ha subìto, un collaboratore del centro di coordinamento locale. Non si erano mai visti prima, ma dopo quella chiacchierata tutto era cambiato. “Se questa catastrofe ha avuto un senso – dice l’ufficiale a Grimma -, è il fatto che noi tedeschi dell’est e dell’ovest in questi 12 giorni di crisi ci siamo avvicinati di più che non nei 12 anni dopo il crollo del muro”. Ne sono convinto anch’io. Di colpo si è considerato l’uomo dall’altra parte, quello toccato dalla catastrofe, e non più il fattore statistico, quello che ancora blocca o frena la ripresa dell’economia nazionale. E anche sull’altro versante non c’era più chi guardava solo dall’alto, che era a caccia di voti, ma piuttosto uno che voleva aiutare, essere solidale. Sì, l’avevamo sentito fortemente, noi nell’est della Germania, che la coesione per la quale eravamo famosi e ammirati era divenuta meno, si era dissolta. Se ho la possibilità di assicurarmi contro qualsiasi eventualità (purché ci siano abbastanza soldi), allora non ho più bisogno del vicino, della sua assistenza. Il principio di reciprocità, “tu aiuti me e allora io aiuto te” diventa semplicemente superfluo e con ciò sparisce la coscienza di trovarsi tutti insieme nella stessa barca. E con una persona che sul posto di lavoro mi rende difficile la vita perché vuole farmi fuori, non c’è più né motivo né voglia di fare una passeggiata la domenica con i bambini o di prendere una birra la sera. L’unica domanda che resta aperta: avevamo bisogno di subire una tale catastrofe per capire queste cose? Erano necessarie le acque dell’Elba per riscoprire questi valori? All’inizio siamo rimasti scioccati: l’alluvione è stata davvero un fulmine a ciel sereno. In pochi minuti niente era più come prima. “Si salvi chi può” è stata la prima reazione. Però tanti rimanevano indietro: ci sono stati morti, senzatetto, molti hanno perso tutto, anche le prospettive per il futuro. Chi piangeva, chi singhiozzava, gridando, bestemmiando. Tutti erano rimasti coinvolti. Però, subito dopo, una seconda alluvione: stavolta, di solidarietà. Quasi con la stessa sorpresa ci travolgeva un’onda di simpatia, aiuto, collaborazione, generosità. Tedeschi dell’est e dell’ovest si rimboccavano le maniche e davano una mano – in una maniera che toccava una seconda volta. No. Questo non era un diluvio apocalittico, bensì una inondazione di senso, di valori. Di colpo veniva in luce che “vivere” prima di tutto significa “dare”, che l’essere prevale sull’avere, l’uomo sui beni materiali. E nelle catene di quanti si passavano i sacchi di sabbia sulle dighe si poteva sperimentare fisicamente che la comunione vale e opera molto più della libertà di convivenza alla quale tanti vogliono abituarci. “Stiamo portando laggiù una minestra, signor vescovo. Vuole venire con noi?”. Mons. Joachim Reinelt, vescovo cattolico di Dresda, aveva già cercato di recarsi nel villaggio di Mühlbach, un paesino rimasto distrutto. Accetta volentieri la possibilità di venire con un gruppo di infermieri di Dresda, che fin dal primo momento ci tornano ogni giorno. “A Mühlbach abita una nostra collega – spiegano al vescovo -. La gente lì non ha più la corrente, né acqua potabile, niente. Alcuni hanno solo quello che portano indosso”. “E voi – chiede il vescovo -, come resistete voi?”. “Beh – rispondono – finiamo a mezzanotte e torniamo alle cinque di mattina. Se tanti ci aiutano, dobbiamo aiutare anche noi”. A Mühlbach il vescovo può farsi un’immagine della distruzione. La gente è grata di qualsiasi aiuto. Accettano anche il detersivo e le spazzole che il prelato – avendo dovuto partire in fretta – ha portato da casa sua. No. Dio non ha mandato il diluvio. Forse però ha permesso una inondazione dei nostri cervelli, del nostro modo di ragionare e giudicare. Forse queste acque ci hanno liberato, purificato dalle incrostazioni che ci avevano resi insensibili alle esigenze del prossimo, alla malattia, alla solitudine, all’afonia delle persone attorno a noi. “Nessuno dica più una parola contro la gioventù” ha sottolineato il vescovo Reinelt in un suo discorso. Infatti i giovani erano presenti dappertutto: a riempire sacchi di sabbia, a portare via il fango, a consolare vecchi che dovevano pernottare nelle palestre. E nelle nostre teste così liberate sempre di più si fa strada l’idea che tutto questo sia la vera normalità. Certo, non possiamo – e non vogliamo assolutamente – augurarci una tale alluvione per “salvare l’umanità”. Ma mi sembra legittimo tirare le conseguenze da tutto quanto ci è venuto addosso. Forse riusciremo a vedere con occhi nuovi il cosiddetto negativo, tutto quello che sembra frenare lo sviluppo. La malattia è e rimane un fatto negativo. Però può provocare un vasto risanamento se porta ad una approfondita riflessione sulla propria vita. Il fallimento non è una cosa auspicabile. Però se mi aiuta a valorizzare meglio le mie capacità, possibilità e desideri, allora può portarmi ad una vita più equilibrata e più accettabile per gli altri. Catastrofi naturali come questa certamente non vanno accettate con fatalismo. Non dobbiamo però ridurre questa situazione ad alcuni fattori scientifici. Ci pongono piuttosto domande basilari sulla nostra esistenza, come: dove sfocia la mia vita? Le offerte generose, l’impegno disinteressato dei giovani e le tante prove di compassione, condivisione hanno senz’altro scavato nelle nostre menti il letto di un nuovo fiume: vi scorre dentro una corrente di aiuto reciproco, di vera e profonda solidarietà. Si tratta di un fiume la cui alluvione è augurabile.

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