Una vita fra le note

P iù di vent’anni di attività musicale. Concerti in tutto il mondo per milioni di spettatori, appartenenti ad ogni cultura, fede o convinzione. Nei teatri, negli stadi, nelle carceri, sulle piazze, nei campi profughi, nelle grandi manifestazioni come Genfest, Giornate Mondiali della Gioventù, Congressi eucaristici, Katholikentag. Decine di dischi, cassette e video incisi. Questo è Mario De Siati, una delle voci storiche del complesso internazionale che ha sede nella cittadella di Loppiano. Conclusa da diversi anni la sua carriera in questa band, continua a offrire in altro modo il contributo della propria professionalità e del proprio talento musicale. Ma più che il personaggio, è il Mario meno noto, quello non sotto le luci dei riflettori, che qui si vuol fare conoscere. Sono nato in un paesino della Puglia, Torremaggiore, in una famiglia povera ma unita. Papà, di professione barbiere, era l’unico a lavorare e con cinque figli i soldi erano sempre pochi. Nel 1948, quando avevo quattro anni, ci trasferimmo a Milano. I primi tre anni li trascorremmo in una cantina umida, che si allagava dopo ogni pioggia, costringendo la mamma a riparare noi bambini sul letto. Ricordo che da piccolo avevo un complesso d’inferiorità verso tutti, forse dovuto sia alla povertà che ad un piccolo difetto di balbuzie. Perciò, anche se di natura allegro ed estroverso, da buon meridionale, ero portato a considerare gli altri sempre più dotati di me. Con gli anni invece capii come questo mio atteggiamento non fosse esente da orgoglio. Sì perché oltre all’orgoglioso che dice: Io sono bravo, io so fare questo, so fare quello, c’è quello che dice: Io non sono capace, io non so… io, io, io…. È sempre l’io che emerge. Compresi pure che il modello del non orgoglio è Maria che nel Magnificat ha cantato: Tutte le generazioni mi chiameranno beata… grandi cose ha fatto in me l’Onnipotente. Non sempre, infatti, l’umiltà coincide col dire io non valgo niente, ma piuttosto nel riportare ogni cosa buona al sommo Bene, cioè a Dio. Tornando alla mia storia, fin da bambino avevo la passione per il canto; soprattutto però mi piaceva il ballo (da piccolo passavo delle ore a sgambettare davanti allo specchio). Del resto in famiglia erano tutti amanti della musica: mia madre era dotata di una voce bellissima, tanto che la chiamavano a cantare nei matrimoni; papà suonava il mandolino, avevo uno zio organista… E il mio problema della balbuzie? Lo risolvevo… cantando! Per esempio a scuola, dove recitare le poesie per me costituiva sempre un dramma, ci riuscivo soltanto se i versi li cantavo, magari sul motivo di qualche canzonetta allora in voga. Naturalmente, complice l’insegnante e fra lo spasso dei miei compagni. Ricordo la felicità di quando riuscii ad acquistare con 15 mila lire prese in prestito il mio primo pianoforte sgangherato da una signora che voleva disfarsene. Siccome dall’età di 14 anni lavoravo in una fabbrica di bilance, mi esercitavo sullo strumento la sera. Tutto preso da questa passione musicale, non è che avessi troppo tempo per frequentare la chiesa: tuttavia cantavo all’oratorio, organizzavo feste… Oltre ad avere questa caratteristica giocosa, ero anche sensibile alle ingiustizie e ai problemi sociali: tant’è che per sette anni mi iscrissi ai sindacati comunisti. Eppure, a me mancava sempre qualcosa, di cui però mi sfuggiva la natura. A 22 anni, durante una vacanza all’estero, ebbi occasione di fare tappa a Lourdes. E lì, alquanto scosso dalle folle di pellegrini provenienti da tutto il mondo, conclusi che tutta quella gente non poteva essere stupida, che Dio doveva esistere davvero. Tanto che davanti alla Madonna della grotta mi venne da chiederle: Se tu sei veramente la Madre di Dio fa’ di me quello che vuoi. Ebbene, dopo il ritorno da quella vacanza, mi capitò di conoscere alcuni focolarini: un Movimento, avrei saputo in seguito, il cui nome ufficiale è Opera di Maria. Ero attirato da quelle persone che parlavano di Gesù con tanta familiarità come se fosse un amico lì presente con loro. Ma mi sembravano gente già perfetta, irraggiungibile: ne concludevo che quella vita non faceva per me. Ogni riserva però cadde il giorno in cui ne conobbi uno che finalmente rivelava dei limiti: poco simpatico per i miei gusti, mi sembrava avesse anche un brutto carattere. Ma allora anch’io potevo vivere come loro, con tutti i miei difetti! E per la prima volta compresi che non potevo amare il mio prossimo se non amavo me stesso come Dio mi amava. L’importante era accettarmi, seguire Gesù così com’ero: con lui che, per amore, aveva assunto ogni nostro limite quando in croce aveva perfino gridato il suo abbandono, il limite stesso non costituiva più un ostacolo ad amare, anzi diventava trampolino di lancio! Nel ’64 capitai in gita a Loppiano. Malgrado piovesse e il fango si appiccicasse alle scarpe come cemento, rimasi affascinato, più che dall’ambiente, dall’atmosfera indescrivibile: quella gioia, quel modo di ascoltare, di accogliere… e poi i canti, le esperienze così vere, la diversità di razze e culture… D’impulso, provai il desiderio di ritornare lì per vivere anch’io così. Era l’attrattiva, via via più chiara, a scegliere Dio nella via del focolare: il che comportava lasciare la famiglia, il lavoro, gli amici, la musica stessa che era il mio tutto…Ma più di quello che perdevo, dei miei timori, confidavo in quello che avrei trovato seguendo Gesù. I miei genitori non la pensavano certo come me, anche se cercai di camuffare la mia partenza per Loppiano dicendo loro che avrei frequentato una scuola internazionale per alcuni mesi. Era il gennaio del 1967 quando arrivai nella cittadella per restarci, ed ero strafelice. Cominciava per me l’avventura con Dio. Già in quegli anni di fondazione, Loppiano la domenica formicolava di visitatori ai quali venivano mostrati i nostri lavori, comunicate le nostre esperienze, fra canti e danze del folclore internazionale oppure canzoni note le cui parole erano state cambiate con altre che meglio esprimevano i nostri ideali. Nel dicembre ’66 Chiara Lubich aveva regalato alle scuole maschile e femminile una batteria rossa ed una verde, assieme a due chitarre: da quel dono sarebbero nati i complessi Gen Rosso e Gen Verde, prototipi degli altri complessi gen spuntati un po’ dovunque per offrire al mondo giovanile il messaggio dell’unità in musica. Intanto, assieme a quegli strumenti, era arrivato tra noi anche chi sapeva comporre testi e musiche originali. E si moltiplicavano gli inviti per tenere piccoli spettacoli nel circondario. Finì che nel nascente Gen Rosso venni chiamato a far parte anch’io. Avevo rinunciato al canto, ed ora mi veniva ridato, ma con un senso nuovo: non un cantare fine a sé stesso, ma per esprimere quell’amore che aveva la sua fonte in Dio. Poi i nostri primi dischi, nei quali ero spesso il solista. Come in Maria, la prima canzone in assoluto per la quale mettemmo piede in una sala d’incisione. Col tempo, quasi tutti i componenti del complesso si specializzarono, chi nell’orchestrazione, chi nel pianoforte, chi nelle percussioni o, come me, nel canto. Studi ed esperienze di cui si avvantaggiavano i nuovi elementi in sostituzione di quelli che partivano. Fu questo uno dei motivi per cui il Gen Rosso si è sempre rinnovato anche nella creatività. Ogni nuova composizione nasceva dall’apporto di sensibilità diverse, ciascuno rinunciando a qualche aspetto della propria idea: questo procedimento, mentre salvava l’ispirazione originaria, la purificava di tutti gli elementi eccessivamente personali; e il risultato finale esprimeva qualcosa in più di quanto si voleva comunicare. Si stava attenti a non far nulla senza quell’amore capace di attirare la presenza di Dio fra noi, l’unico che poteva far breccia nel pubblico servendosi dei nostri talenti… e spesso perfino dei nostri errori! Come spiegare altrimenti il seguito di cui godevamo nel mondo giovanile e la diffusione delle nostre canzoni? E i ritorni innumerevoli a Dio, le persone cambiate e non di rado aiutate nella scelta di una donazione totalitaria?… Ricevere applausi ed ovazioni mi imbarazzava, non sapevo mai come comportarmi; finché qualcuno mi suggerì di accoglierli non come diretti alla mia persona ma a quel Dio amore che volevamo testimoniare. Da allora anche i momenti di gloria non costituirono più un problema per me: grato per essi, in cuor mio li indirizzavo a chi di dovere. Sapevo bene che, ad equilibrare tutto, prima o poi sarebbero arrivate anche le purificazioni! Ho un ricordo bellissimo di certi spettacoli in cui una folla di persone diventata un cuor solo stava ad ascoltarmi in un silenzio quasi sacro… In quei momenti mi sentivo tramite per loro di una realtà divina, come avviene al prete all’altare. Anche oggi, nella preghiera, ricordo tutti quelli che sono venuti ad un mio spettacolo: è una rete che abbraccia ormai il mondo! Nel novembre dell’85, dopo quasi vent’anni, lasciai il Gen Rosso per assumere un altro incarico a Milano. Niente più spettacoli, applausi, viaggi in cui conoscere luoghi e popoli nuovi. Di colpo, invece, mi trovai a condurre la vita normale e molto meno esaltante di un appartamento al settimo piano con quattro persone. Davvero non fu facile cambiare di colpo abitudini. Fu l’occasione per una seconda scelta di Dio. Lui mi chiedeva, attraverso i nuovi compiti che mi attendevano, di metterlo ancora una volta al primo posto, prima della musica. Senza rimpianti del passato che avrebbero potuto farmi trascurare chi avevo accanto. Ed ecco, m’accorgevo con stupore e con gioia di capacità insospettate in me nel trasmettere in modo diverso lo stesso messaggio di prima a chiunque incontravo. A Milano conclusi anche i miei studi musicali. Poi il trasferimento a Roma, dove mi occupo – fra l’altro – della pubblicità di Città nuova. Qui in più occasioni, a partire dalla Pentecoste 1998, sono stato chiamato a dirigere un coro composto da membri dei diversi movimenti ecclesiali: un’esperienza profonda di comunione, da cui ogni volta torno arricchito. Inoltre, è anche il terzo anno che vengo invitato a dare un analogo contributo, per quanto riguarda i canti liturgici, durante la missione giovanile lanciata dalla diocesi nel centro storico della capitale. Per me, che ho lasciato e ritrovato il canto a più riprese, è uno sperimentare ogni volta la potenza e l’efficacia di questo veicolo nel propagare il messaggio del vangelo. Il canto, in questo senso, per me è allo stesso livello di un discorso, se non addirittura di più. Del resto è di sant’Agostino, che se ne intendeva, l’affermazione: Chi canta, prega due volte.

I più letti della settimana

Chiara D’Urbano nella APP di CN

Edicola Digitale Città Nuova - Reader Scarica l'app
Simple Share Buttons