Una Chiesa che non può tacere

Mons. Macram Max Gassis, vescovo di El-Obeid, è uno dei pochi ad avere un filo diretto con il Sud Kordofan. Dalla sua voce, le ultime notizie
macram max

Saranno i 25 anni trascorsi in loco, attraverso tutta la guerra civile, che l’hanno reso particolarmente coriaceo; ma mons. Macram Max Gassis, vescovo di El-Obeid in Sud Kordofan, non le manda certo a dire a nessuno. La sua diocesi, in cui vivono 6 milioni di persone – di cui 1 milione di cristiani e 150 mila cattolici –, comprende anche il Darfur. Grazie ai contatti diretti con i suoi collaboratori in loco, è attualmente una delle poche fonti disponibili su questo argomento. Lo abbiamo contattato in occasione di un suo viaggio in Europa, per raccogliere aiuti per la popolazione.

 

 

Mons. Max, è difficile sapere che cosa stia davvero accadendo: che notizie ha? 

«C’è carestia, mancano cibo e medicinali. Noi riusciamo a procurarci qualcosa, ma servirebbe sorgo a tonnellate, e soprattutto sale: moltissimi soffrono di gozzo. Per fortuna i monti Nuba offrono una difesa naturale e la gente trova riparo nelle caverne, ma le bombe continuano a mietere vittime. L’unico ospedale, in cui accogliamo feriti di entrambe le parti, è partito con 80 letti, e ore ne ha 180; inoltre abbiamo accolto oltre 100 mila rifugiati nelle zone della diocesi dove non si combatte. Ma non possiamo fare tutto, soprattutto adesso che siamo rimasti gli unici: le ong sono state le prime ad andarsene. Intanto il Nilo Blu è già stato riconquistato da Khartoum, che ora sta puntando al Kordofan».

 

 

C’erano stati segnali prima dell’attacco? 

«Il sospetto era nell’aria: prima delle elezioni, Bashir aveva dichiarato in televisione che il suo candidato avrebbe vinto “con i voti o con le munizioni”. Anche in Darfur è andata allo stesso modo, e la zona è ancora in guerra: nonostante Bashir abbia negoziato un cessate il fuoco con una parte minoritaria della resistenza, le due fazioni principali sono ancora in lotta».

 

 

Il Sud Sudan come reagisce? 

«Il Sud dovrebbe letteralmente baciare i piedi ai soldati dell’Spla, perché è grazie a loro che ha raggiunto l’indipendenza. Ora invece guarda dall’altra parte, e questo è percepito come un tradimento».

 

 

Perché il mondo tace davanti ad una tragedia simile? 

«L’Occidente ha peccato di miopia nel credere che sarebbe bastata la secessione del Sud per risolvere le tensioni, ma quella è solo una parte del problema. Qual è il potere effettivo di questo Stato? E cosa succederà nelle altre zone di confine, dai monti Nuba all’Eritrea? Fino a che punto l’esercito potrà dividersi su così tanti fronti? E che ne sarà dell’opposizione a Bashir all’interno dello stesso Sudan? L’ingiustizia non può andare avanti all’infinito, e le popolazioni sottomesse continueranno a ribellarsi al governo di Khartoum. Governo, che, peraltro, nessuno ha eletto».

 

 

Qual è la cosa più urgente da fare adesso? 

«Servono soprattutto medici: per ora è rimasto solo un italo-americano, Tom Catena, aiutato dalle suore comboniane. Durante il mio viaggio in Europa ho potuto raccogliere qualche aiuto, ma ora il problema il blocco: bisognerà farlo arrivare clandestinamente».

 

 

La Chiesa è l’unica istituzione rimasta: qual è il suo ruolo? 

«Pregare è importante, ma se non si fa nulla rimangono parole vuote. La Chiesa non può tacere, deve avere il coraggio di condannare l’oppressione: il diritto all’autodeterminazione è parte dei diritti umani. Dobbiamo insistere, far sentire la nostra voce al mondo grazie ai media: è di questo che il regime ha paura».

 

 

Se i missionari dovessero andarsene, che ne sarebbe della popolazione locale? 

«Di fatto già sono stati espulsi una volta per 13 anni, e la comunità non è morta grazie ai catechisti locali. Ne abbiamo una cinquantina, e sono le fondamenta che garantisce la sopravvivenza della Chiesa: dei veri “santi vivi”, soprattutto nel Darfur».

 

 

Quando tornerà a El-Obeid, e con che prospettive? 

«Cercherò di rientrare a Natale attraverso il Sud Sudan, se la mia gente “me lo consente”: sono molto protettivi, perché vedono in me un padre spirituale che non difende solo i cattolici ma tutto il popolo, e quindi vorrebbero che rimanessi all’estero per questioni di sicurezza. Ma devo tornare: se non ci sono io, chi cura la mia gente? Ammetto di avere un po’ di timore, ma non paura: ho vissuto per 18 anni al di fuori della sede vescovile, perché ero minacciato, e avrei dovuto comparire in tribunale per aver “infangato la reputazione del Sudan. Sono pronto ad affrontare quello che mi aspetta».

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