Un summit per l’emigrazione

Se la tendenza attuale non rallenta, per l’anno prossimo tra 7 e 8 milioni di venezuelani avranno lasciato il loro Paese, avvolto in una crisi drammatica. Il Perù invita un centinaio di governi per trovare una strategia comune
In fuga dal Venezuela verso il Perù

Sono circa 4 milioni i venezuelani che hanno lasciato il loro Paese negli ultimi tempi. Molti sono letteralmente fuggiti da un calvario fatto di code eterne per reperire alimenti e generi di prima necessità, come le medicine, o di affrontare il rischio di una operazione in ospedali privi del necessario. Sono fuggiti da un’inflazione senza controllo, da un’economia nella quale è impossibile sapere come vivere e quanto costino le cose. I prezzi si moltiplicano giorno dopo giorno all’impazzata, per due, per tre, per quattro. Nel mentre, come un disco rotto, il regime ripete slogan rivoluzionari senza prendere atto che ormai si tratta di proclamazioni quasi deliranti.

Dei 32 milioni di abitanti, alla fine del 2018 il 47% era disposto ad andarsene. Un anno prima lo avrebbe fatto il 38%. Se non ci saranno cambiamenti che frenino la tendenza, l’Onu stima che per nel 2020 gli emigrati saranno tra 7 ed 8 milioni. Una marea umana che nessun Paese può affrontare da solo e mette a prova la generosità dei vicini. La Colombia ha ricevuto 1 milione e 300 mila persone in due anni. Il Perù 768 mila in 6 mesi, 300 mila sono finiti negli Usa, 288 mila in Cile e 260 mila in Ecuador, in Brasile 168 mila, altri 130 mila in Argentina e 95 mila in Panama. Altri 600 mila sono emigrati al di fuori del continente americano.

Si tratta di un esodo che mette alla prova qualsiasi politica di accoglienza, data la necessita di rispondere in tempi brevi al flusso migratorio determinato da condizioni tutt’altro che normali (se possono essere considerate normali le condizioni che inducono qualcuno a lasciare la propria terra, la propria cultura, i legami famigliari ed affettivi). Qui si agisce in base alla disperazione. Si attraversano regioni arrostite dal sole con pochi indumenti, qualche borsa ed i soldi racimolati da ogni dove, quando è possibile racimolarli. Si guadano fiumi e torrenti, ci si installa come e dove è possibile, bisognosi di tutto.

Si affrontano condizioni umilianti e precarie, magari portando con sé un lattante o bambini in tenera età. Ogni situazione, sebbene drammatica, pare preferibile alla lotta per la sopravvivenza alla quale ci si era ridotti nel proprio Paese. Ed i Paesi recettori di quest’ondata non sono economie ricche, come accade in Europa, ma governi che stanno con affanno cercando di risolvere questioni ben più gravi. Non è rosea, per niente, la situazione argentina, non lo è quella del Perù e ancora meno quella brasiliana, ecuadoriana e colombiana.

Il governo del Perù lo ha capito chiaramente e ha invitato più di 100 Paesi a discutere della crisi in Venezuela. Tra questi, per il prossimo summit del 6 agosto, ci sono Russia e Cina, notoriamente a favore del regime del presidente Maduro, come pure governi che sono ideologicamente opposti. Troviamo allora anche la Turchia, i Paesi membri della Unione europea e quelli di tutto il continente americano. Escludendo, ancora una volta, l’ipotesi di un intervento militare, l’iniziativa punta ad affrontare in modo corale la questione alla ricerca del bene comune internazionale senza fermarsi alle posizioni ideologiche. Siamo di fronte a una presa di coscienza del problema che non interessa più solo alcuni ma è generale.

Prima che comincino a farsi spazio nell’opinione pubblica posizioni che sfociano in genere nella xenofobia, parente vicina del razzismo, e comincino ad apparire i pregiudizi che attribuiscono al migrante i problemi di casa – una recente indagine ha rivelato che solo rispondendo a mere percezioni e non a fatti reali, se nel febbraio di un anno fa il 43% dei peruviani aveva una immagine negativa dei venezolani, ad aprile di quest’anno la cifra era salita al 67%; mentre il 54% attribuisce loro un incremento della delinquenza, pur senza che ciò risponda a un fenomeno reale –, conviene prendere le misure del caso per accogliere in condizioni decenti chi deve essere ricevuto, ma anche per bloccare quanto prima questo esodo. Il che ci riporta alla crisi politica che vive il Paese caraibico.

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