Un sogno fattosi storia

Annotava in un diario James Albert: Lavorare dall’alba al tramonto per un anno intero incatenato alla terra dai conti da pagare, scacciare questi pensieri con cattivo gin, dimenticare nell’estasi del canto e della preghiera… piangere, maledire sé stesso per la propria viltà, essere lo zimbello dei giudici e dei poliziotti, finire col credere alla propria indegnità… e infine cedere, inchinarsi, strisciare, sorridere e odiare sé stesso per il proprio servilismo e la propria debolezza. Lui, James Albert, era il nonno paterno di Martin Luther King. Nelle sua parole c’è l’eco di tanti tormenti, di tanta rabbia sorda inghiottita da una moltitudine di neri d’America che, per un paio d’interminabili secoli, videro passare le lune e le stagioni sui loro capi, mentre loro e i loro figli venivano comprati e venduti per lavorare nelle piantagioni di cotone negli stati del Sud, dov’erano spesso maltrattati e a volte uccisi, come bestie. Ma anche ai tempi in cui Martin era bambino erano ancora feroci i morsi della discriminazione razziale: gli altri ragazzini, i bianchi, si rifiutavano di giocare con i negri; c’erano fontanelle pubbliche separate per bianchi e neri e negli autobus posti separati; gli studenti di colore ricevevano un’istruzione inferiore a quella dei bianchi; appesi ai muri pendevano cartelli con la scritta solo per bianchi; e la vita dei neri si consumava fra strutture fatiscenti, in ghetti sudici e sovrappopolati. A otto anni Martin venne a sapere che la sua prediletta cantante di spirituals, Bessie Smith, ferita in uno scontro automobilistico, era morta dissanguata perché rifiutata dagli ospedali di Atlanta per soli bianchi. S’era negli anni Trenta negli Usa, non nel medioevo. Senza questi retroscena non si può comprendere l’opera e la vita di Martin Luther King. Non si possono comprendere le sue parole che da allora, dal 28 agosto 1963, quando le pronunciò al Lincoln Memorial di Washington, sventolano nell’aria come un’indomita bandiera: Ho un sogno: che un giorno questa nazione si sollevi e viva pienamente il vero significato del suo credo: Riteniamo queste verità di per sé stesse evidenti: che tutti gli uomini sono stati creati uguali. Martin Luther King, nato ad Atlanta nel 1929, fu pastore protestante, politico, ma soprattutto l’indiscusso leader dei diritti civili statunitensi negli anni Cinquanta e Sessanta. È stato il più giovane premio Nobel per la pace della storia: ricevette il riconoscimento nel 1964 quando aveva appena trentacinque anni. Martin fu paladino degli emarginati, sempre in prima linea per combattere i pregiudizi etnici. La goccia che fece traboccare il vaso e scaturire la rivolta dei neri fu l’arresto, nel 1955, di Rosa Parks. Era accusata d’aver violato le leggi sulla segregazione per essersi rifiutata di alzarsi da posti riservati a soli bianchi. Allora King, sulla scia di Ghandi, organizzò una protesta pacifica, facendo sua arma il dialogo. Da quel giorno fu l’organizzatore di innumerevoli iniziative per il diritto di voto ai neri e per l’abolizione delle forme legali di discriminazione allora ancora vigenti negli Stati Uniti. I fermenti agitavano l’aria: We shall overcome, noi vinceremo, cantavano Joan Baez e un numero sterminato di manifestanti in tante strade e piazze d’America. Noi sfidiamo la vostra capacità di farci soffrire con la nostra capacità di sopportare le sofferenze predicava King. Metteteci in prigione, e noi vi ameremo ancora. Lanciate bombe sulle nostre case e minacciate i nostri figli, e noi vi ameremo ancora. Mandate i vostri incappucciati sicari nelle nostre case nell’ora di mezzanotte, batteteci e lasciateci mezzi morti, e noi vi ameremo ancora. Fateci quello che volete e noi continueremo ad amarvi. Ma siate sicuri che vi vinceremo con la nostra capacità di soffrire. Un giorno noi conquisteremo la libertà, ma non solo per noi stessi: faremo talmente appello alla vostra coscienza e al vostro cuore che alla fine conquisteremo anche voi, e la nostra vittoria sarà piena. Come ogni precursore, anch’egli s’inerpicò nella notte. Si trovò solo, stanco morto, sfiduciato dalle proprie piccolezze e da quelle altrui. Lo salvò la fede. Una sera del ’56 confessò: Eccomi qui: mi batto per ciò che credo giusto. Ma ho paura. Mi chiedono di guidarli, ma se mi presento loro senza forza e senza coraggio anch’essi vacilleranno. Ho esaurito le mie forze. Non mi rimane nulla. Ma proprio in quel momento avvertì la presenza di Dio, una voce interiore che gli intimava con chiarezza: Lotta per la giustizia. Lotta per la pace. Dio sarà sempre al tuo fianco!. È una svolta fondamentale nella sua vita: Martin sente, nelle viscere della propria anima, la forza di Dio. E riprende la lotta. Nel ’63 la polizia si scaglia pesantemente contro un corteo di ragazzi che marciano urlando slogan e cantando We shall overcome: vengono sguinzagliati i cani e messi in azione gli idranti. Sotto la pressione dell’opinione pubblica, scossa per quei fatti mostrati da tante Tv e giornali, la Casa Bianca dichiara illegale la segregazione nei negozi e nei luoghi pubblici e decreta che l’assunzione di bianchi e neri deve essere fatta su basi egualitarie. Il getto degli idranti non è riuscito a tacere le note di We shall overcome. Anzi sono diventate un inno dirompente, che col tempo porterà alla piena integrazione e parità tra bianchi e neri d’America. Ma Martin Luther King non vedrà il frutto del suo lavoro. Viene assassinato a colpi d’arma da fuoco sul balcone d’un motel di Memphis, prima della marcia per la pace del 4 aprile 1968. Stavano per andare a cena, lui e la moglie Coretta. Durante il rito funebre, celebrato proprio dal suo anziano padre nella chiesa battista di Ebenezer, il silenzio immenso che domina l’aria viene rotto dalle sue parole, registrate sul nastro e diffuse da un magnetofono: Se qualcuno di voi sarà qui nel giorno della mia morte, sappia che non voglio un grande funerale. E se incaricherete qualcuno di pronunciare un’orazione funebre, raccomandategli che non sia troppo lunga. Ditegli di non parlare del mio premio Nobel, perché non ha importanza… Dica che una voce gridò nel deserto per la giustizia. Dica che ho tentato di spendere la mia vita per vestire gl’ignudi, per nutrire gli affamati, che ho tentato di amare e servire l’umanità. Per tanti la sua morte è diventata una staffetta: s’è passato il testimone. Tanti, da allora, hanno voluto gridare: abbiamo un sogno! E hanno lottato per realizzarlo. Fateci quello che volete e noi continueremo ad amarvi. Ma siate sicuri che vi vinceremo con la nostra capacità di soffrire.

I più letti della settimana

Osare di essere uno

Chiara D’Urbano nella APP di CN

Focolari: resoconto abusi 2023

Edicola Digitale Città Nuova - Reader Scarica l'app
Simple Share Buttons