Un patto di fraternità per Haiti

Il popolo colpito dal terremoto ha diritto di ricevere oggi, dalla comunità internazionale, quella fraternità che gli fu negata dalla schiavitù e che, attraverso le sue sofferenze storiche, ci ha aiutato a comprendere meglio. Intervista ad Antonio Maria Baggio

Prof. Baggio, lei aveva dato inizio, a Port-au-Prince, a una scuola di formazione politica per i giovani haitiani; ha sviluppato, con gli anni, un rapporto con il popolo haitiano. Potrebbe raccontare questa sua esperienza? Come ha vissuto la notizia del terremoto? 

Come tutti, sono stato estremamente colpito dalla notizia. Haiti è un posto che non molti conoscono, specialmente in Europa. Nel mio caso, invece, potevo dare dei nomi e dei volti a quelli che forse erano morti. Anch’io, del resto, ho “scoperto” Haiti – non in senso geografico, ma nel senso della sua importanza storica e culturale – molto tardi, solo una decina di anni fa.

Fui chiamato nel 2001 da Monsignor Serge Joseph Miot, l’arcivescovo di Porto Prince – che è rimasto vittima di questo terremoto -, su suggerimento di Monsignor Luigi Bonazzi, che era allora il Nunzio apostolico a Port-au-Prince e che ha dato un contributo determinante alle nostre successive iniziative. In Italia, dal 1994, avevamo attuato un’esperienza molto interessante di scuole di formazione sociale e politica per i giovani, le Scuole “Res nova”, ispirate dall’Ideale dell’unità di Chiara Lubich, che le sostenne e le riconobbe formalmente come vere e proprie “opere” del Movimento dei Focolari. Mons. Miot ebbe l’idea di avviare una esperienza simile, sotto la responsabilità della Diocesi, anche ad Haiti; ci incontrammo prima a Roma, e stabilimmo di lavorare insieme. Fu un’avventura straordinaria per tutti coloro che vi hanno partecipato; la scuola, dedicata a “Toussaint Louverture”, cominciò nel 2002, dopo un anno di preparazione.

Che cosa ho fatto alla notizia del terremoto? Nel mio ufficio, all’Istituto Sophia, è appeso un quadro raffigurante Toussaint Louverture, che mi fu regalato dai giovani haitiani durante il primo seminario di studi della Scuola. Dietro, vi sono tutte le loro firme, e la mia: avevamo sottoscritto un “patto” di fraternità, di amicizia, di collaborazione educativa, per fondare la Scuola. Non ho notizie della maggior parte di loro. Ma credo che la morte non basti a sciogliere quel patto, perché l’Amore è più forte della morte; gli amici che già sono con Dio ci aiuteranno meglio a ricostruire anche la Scuola.

Comunque, per parte mia, quando arrivai lì la prima volta, nel 2001, avevo ancora una conoscenza e una sensibilità “esterne”, da europeo che, sostanzialmente, non conosce quella realtà.

 

Che cosa ha compreso attraverso questo incontro?

Ad Haiti ho avuto l’incontro diretto, fisico, con l’eredità della rivoluzione haitiana del 1791, l’altra faccia della rivoluzione francese del 1789; si potrebbe dire: l’altra faccia dell’Europa, l’altra faccia dell’Illuminismo. Teniamo conto che nei libri di storia delle scuole europee non si parla di Haiti; nei testi francesi, gli scolari la incontrano soltanto perché, di solito, viene menzionata la spedizione del generale Leclerc, che nel 1802 venne inviato da Napoleone col compito di riprendersi l’isola e ristabilire la schiavitù. Leclerc riuscirà a catturare, con l’inganno, il capo degli haitiani, Toussaint Louverture, che aveva pacificato il Paese, gli aveva dato una Costituzione e stava riuscendo, pur tra mille difficoltà, a rimetterlo in piedi dopo i disastri di dieci anni di guerra; Toussaint dimostrò che il Nero poteva darsi una disciplina, vincere una guerra contro potenze europee, autogovernarsi: per gli europei tutto ciò era “l’impensabile”. Fu il capolavoro di Toussaint: trasformare una ribellione crudelissima e selvaggia di schiavi, che restituivano con gli interessi ai loro padroni quel che avevano ricevuto, in una rivoluzione politica; Toussaint costruisce un popolo chiamando 450 mila schiavi, appartenenti ad etnie diverse, ad una fraternità che conferisce loro una nuova identità. Sulla base della fraternità, Toussaint cerca di conquistare la libertà e l’uguaglianza: la rivoluzione haitiana rende realmente universali i principi della rivoluzione francese, quei principi che, proclamati a Parigi, non venivano riconosciuti a Port-au-Prince. Leclerc catturò Toussaint, ma non riuscì a domare la rivoluzione: il primo gennaio 1804 ad Haiti venne proclamata la prima Repubblica Nera.

E qui troviamo il paradosso di un Illuminismo che, nella sua versione arrivata al potere, poteva convivere, paradossalmente, a dispetto della sua affermazione dei diritti umani universali, con la schiavitù.

 

Sembra esserci una forte relazione con la fraternità in chiave politica…

L’incontro con Haiti fu importante, perché proprio in quel periodo, con Chiara Lubich, stavamo elaborando l’idea di fraternità, che Chiara aveva lanciato come caratteristica del suo “Movimento politico per l’unità”. Chiara, naturalmente, traeva dal proprio carisma la luce per pensare le sue idee, ma Haiti fu importante, perché faceva capire aspetti rilevanti della fraternità nella concretezza della storia; e il carisma di Chiara, fin dai suoi inizi, non ha mai fuggito ma, al contrario, ha sempre cercato l’azione storica quotidiana; soprattutto, Haiti faceva capire che cosa significa quanto questa fraternità è negata. Il popolo haitiano ci apparve, allora, come un enorme crocifisso vivente, che ancora attende la sua resurrezione. Il popolo haitiano è portatore di una sofferenza storica dovuta alla violazione dei suoi diritti umani, e questo perché proprio la fraternità gli è stata negata. Tutto questo è entrato nell’elaborazione dell’idea di fraternità del “Movimento politico per l’unità” sviluppata con Chiara [si veda il testo: La sfida della fraternità: da Haiti alla comunità politica mondiale, in questo “speciale”, NdR].

D’altra parte, la prospettiva spirituale e di pensiero di Chiara Lubich offriva la possibilità di vedere in maniera luminosa il ruolo di Haiti, di dare un senso al suo percorso storico. Di questo troviamo una traccia importante nel discorso che Mons. Miot pronunciò in occasione del bicentenario della morte di Toussaint Loverture, il 7 aprile 2003 nella Cattedrale di Port-au-Prince, davanti alle maggiori autorità civili e religiose [Il discorso di Mons. Miot è riportato in questo “speciale”, NdR].

 

Anche prima di questo terremoto, Haiti viveva una situazione socio-economica molto difficile: potrebbe parlarcene?

Quando ho incontrato Haiti ho avuto l’impressione di trovarmi di fronte ad una povertà “particolare”; la sofferenza mi sembrava ancora più acuta, se così posso dire, perché era accompagnata da una grande consapevolezza. Faccio un esempio: una domenica pomeriggio ero andato con alcuni amici a fare un giro in macchina, fuori da Port-au-Prince. Anche nelle campagne, lungo le strade polverose, si incontrava gente elegante, che metteva gli abiti migliori, pulitissimi. Avanzavamo a passo d’uomo e ho visto un anziano, alto, secco, essenziale, vestito con una camicia bianchissima, inamidata, perfetta; dei pantaloni blu, che gli scendevano con una riga dritta come una spada; le scarpe lucide di pelle e un cappello elegantissimo; camminava lentamente, in maniera regale, lungo la strada sconnessa. A certo punto vedo che abbandona la strada, scende superando il canale di lato, in sostanza uno scarico fognario a cielo aperto ed entra in una casupola di legno e lamiera, la sua casa. Il contrasto tra la sua figura e l’ambiente era fortissimo. Che cosa mi ha detto in quel modo? Era come se mi avesse parlato: “guarda, io so chi potrei essere nella mia vita; e la domenica mi vesto come se lo fossi veramente, e lo mostro a te e a me; non sono così, la mia condizione di vita è esattamente opposta, ma so che potrebbe essere diversamente”. E’ questa consapevolezza che rende acuta, diversa, la sofferenza di Haiti.

Anche prima del terremoto, Haiti era povertà, era debolezza – quasi assenza – di società civile, pochissime le attività produttive dell’imprenditoria libera, non invischiata – e dunque non protetta e condizionata – dalla politica. Haiti, con la dittatura dei Duvalier e, poi, anche sotto Aristide, è andata sempre peggio, è riuscita a sopravvivere solo grazie all’aiuto internazionale, perché una miriade di organizzazioni non governative, di associazioni di carità, di ordini religiosi, sostengono la popolazione giorno per giorno. Haiti, con le proprie forze, con quello che la sua classe dirigente ha fatto e ha costruito, non era autosufficiente. Questa è la verità nuda e cruda. E questo nonostante in Haiti ci sia una classe intellettuale, potenzialmente dirigente, composta da molti che hanno studiato fuori dall’Isola, soprattutto in Francia e negli Stati Uniti. Una parte di questa intelligenza haitiana, compresi molti giovani universitari, se l’è portata via il terremoto. Dopo la cacciata di Aristide si vedevano gli sforzi per migliorare; ora bisogna ricominciare.

 

Su quali risorse può contare oggi Haiti?

Prima di tutto sulle persone; ci sono ad Haiti personalità straordinarie, gente di grande intelligenza e preparazione, haitiani che potrebbero facilmente vivere in Paesi occidentali ma hanno scelto di restare nel loro Paese. La comunità internazionale deve favorire il progetto di “ripensare” Haiti, le sue istituzioni, la sua società, non imponendo soluzioni prefabbricate, ma mettendosi al servizio del popolo haitiano. La comunità internazionale, con la sua presenza, può aiutare lo sviluppo di stili di vita pubblica basati sulla legalità, la trasparenza delle procedure, la diffusione dei pilastri fondamentali della democrazia nella mentalità di tutti: ma dev’essere un progetto haitiano, che faccia venire fuori il meglio di Haiti. Haiti ha una storia estremamente importante, un’identità che deve riuscire ad emergere pienamente e pacificamente.

Certamente, saremo a lungo impegnati nella ricostruzione delle cose più essenziali. Ma credo anche che, da subito, si debba porsi il problema della formazione di una giovane e nuova classe dirigente e, insieme, di una formazione degli haitiani come cittadini. Anche questa è una emergenza: solo la soluzione di questo problema potrà impedire di ripetere gli errori del passato. Perché, allora, non cercare di riprendere l’esperienza della Scuola di formazione sociale e politica Toussaint Louverture, appena possibile?

Un’altra azione importante potrebbe essere quella di favorire il rientro di molti giovani haitiani che hanno compiuto i loro studi all’estero, che hanno fatto esperienza e raggiunto una competenza; è giusto che tornino a dare il loro contributo, pensando non solo all’emergenza di oggi, ma anche alla ricostruzione e al futuro: molti lo vogliono fare [si veda l’intervista a R. Augustin in questo speciale”]. Io credo che potrebbero essere i giovani qui in Europa a farsi carico di questi obiettivi: è bene che i giovani aiutino i giovani.

 

 

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