Un maestro di suspense e di avventura

In colloquio, a Pavia, con Mino Milani, il “papà” di Tommy River. Una vita dedicata alla narrativa giovanile, e non solo

Dal 1964 al 1977 per quasi settecento settimane, una dopo l’altra, milioni di lettori aspettarono con ansia di leggere la nuova puntata della rubrica La realtà romanzesca, che lo scrittore Mino Milani curava per la Domenica del Corriere, il popolare settimanale fondato a Milano nel 1899 e chiuso nel 1989.Quelle affascinanti storie riproponevano infatti, in versione moderna, il più classico dei temi, quello dell’uomo a confronto con forze che lo trascendono e lo collocano, magari per un solo ma decisivo istante, al centro del gioco del destino. Il quale, per quanto minaccioso nei racconti da brivido di un vero maestro di suspense come Milani, finisce per rivelarsi un provvidenziale alleato, capace di fornire al protagonista l’inattesa e “romanzesca” via d’uscita da una situazione apparentemente senza speranza di salvezza.

La recente riedizione di un’ampia scelta di queste storie dal titolo La realtà romanzesca (Ed. Gommarò) mi ha riportato alla memoria l’intervista da me fatta nel 2010 all’autore– all’epoca un ottantenne dal fisico e dallo spirito ancora giovanili – nella sua casa di Pavia, dirimpetto a quel gioiello romanico che è San Pietro in Ciel d’Oro.

Per documentarmi su Milani, che prima di proporsi come giornalista, sceneggiatore per fumetti al Corriere dei Piccoli e divulgatore storico, aveva esordito come scrittore di romanzi per ragazzi (ne avrebbe sfornato una quarantina), avevo letto L’Autore si racconta: un testo edito da Franco Angeli, nel quale il papà di Tommy River, dei quattro di Candia, di Efrem, di Fortebraccio e di altri indimenticabili personaggi che spaziano dall’antichità classica al Medioevo, dal Risorgimento all’epoca contemporanea, svela i “segreti” di una narrativa, la sua, caratterizzata da una scrittura essenziale, antiretorica, con qualche tocco di ironia.

In effetti Mino Milani ha rinnovato il romanzo d’avventura, dimostrando che per inventare storie emozionanti non è indispensabile l’ambientazione esotica: l’elemento avventuroso può movimentare anche il quotidiano delle nostre città e contrade. Né è questo il solo elemento di novità dei suoi racconti, molti dei quali hanno raccolto una messe di premi: i protagonisti, infatti, non sono supereroi, ma uomini con i propri limiti, che lottano e pagano non di rado la vittoria con la vita.

Ancora attuale per la resa del personaggio mi sembra quella lontana intervista allo scrittore lombardo, così la ripropongo:

Lei si definisce pessimista. Come la mettiamo col fatto che il suo pubblico preferenziale, i giovani, rappresenta il futuro, la speranza della vita?

Non c’è contraddizione. Sono pessimista nel senso che ho poca fiducia nell’uomo perché ne ho viste tante di guerre, di crisi…, ma non sono affatto contento di esserlo, né voglio che gli altri lo diventino. Con i ragazzi non lo sono, mi rifaccio ai grandi valori della solidarietà, del rispetto per l’altro, che sono poi valori cristiani. E questo proprio contraddicendo il mio pessimismo.

M’è parso di capire che lei intende tirare i remi in barca, quanto allo scrivere…

Ma solo per ciò che riguarda la letteratura giovanile, un campo nel quale mi sembra di aver detto tutto ciò che avevo da dire. Invece, se Dio mi dà vita, vorrei scrivere ancora sul Risorgimento, argomento già da me frequentato. Sa, io sono uno degli ultimi patrioti, mentre oggi quel periodo così decisivo per le sorti dell’Italia c’è chi lo discute, lo critica se non addirittura lo nega.

Infatti lei è autore di una corposa biografia di Garibaldi. Ma anche il Medioevo è un’età da lei prediletta…

Era inevitabile per uno che vive in una città ricca di testimonianze di quell’epoca come Pavia. Tuttavia quello da me ricreato rimane pur sempre un Medioevo aderente alla verità storica. Non come quello del fantasy, che sconfina addirittura nella fantascienza.

E cosa pensa dell’attuale produzione per giovani in cui si nota una inflazione di testi su vampiri, morti viventi ecc.?.

È una moda indotta dai film, dalla tv, da un cedimento anche nei confronti di feste come Halloween. No, l’horror nella letteratura per i ragazzi è una cosa che mi fa… orrore! Non mi interessa. Ad interessarmi, invece, è soprattutto la vita reale. E questa penso attragga anche i ragazzi, malgrado tutto. Così ho cercato di raccontare loro la storia con obiettività, sia pure nell’invenzione fantastica, senza dividere i buoni da una parte e i cattivi dall’altra: cose che non hanno mai convinto neanche me ai miei tempi, quando questo era d’obbligo nella narrativa giovanile.

Nei tanti contatti avuti con gli studenti, da cosa è rimasto più gratificato?

Scoprire ad esempio che in moltissimi casi alcuni che aveva cominciato a leggere un po’ riluttanti un mio libro (è facile, quando ci si avvicina alla lettura con testi imposti dagli insegnanti), poi vi si era appassionato. Ecco un dato confortante: allora non ho lavorato invano, qualcosa è rimasto.

È diverso scrivere su commissione o scegliere lei l’argomento di un libro?

No, perché non mi sono fatto mai condizionare al punto di farmi dire da altri cosa scrivere. Quando ad esempio Giovanni Mosca, il direttore del Corriere dei Piccoli, mi ha chiesto dei racconti sul West, io glieli ho fatti, però alla mia maniera. È nato così il personaggio di Tommy River.

Cosa si proponeva, scrivendo per i ragazzi? Di educare, divertire, far riflettere?…

Far riflettere? Mah, se un libro ha un minimo di contenuto fa sempre riflettere. Io però non ho mai pensato di insegnare qualcosa se non l’onestà, il lavoro, il rispetto degli altri, l’amicizia… tutte cose ovvie del vivere civile. Oggi come oggi però, in un Paese come il nostro dove si legge poco, anche per il predominio della tv, vorrei prima di tutto divertire. E far ricordare che quello che si vede in tv passa in fretta, mentre il libro rimane.

Quando a fine intervista chiesi a Milani se avesse verificato sui propri figli l’effetto dei suoi libri, vidi lo scrittore, fin allora brillante, farsi serio. Sul suo volto si stese come un velo di rimpianto, che tradiva un’antica ferita: «No, non ho figli purtroppo. Quello che è venuto non s’è fermato. È vissuto solo tre giorni». Sarà per questo che aveva dedicato un’intera vita a scrivere per altri “figli”, migliaia oramai, le storie che forse avrebbe voluto raccontare al suo?

 

 

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