Un anno di scuola

Bilancio provvisorio di 12 mesi vissuti tra troppe polemiche e molto impegno quotidiano poco riconosciuto. La sfida dei test Invalsi.
Scuola

Anno ciclico quello appena trascorso: è iniziato con l’ondata di tagli al personale della “Legge Gelmini” e si chiude con l’inserimento in ruolo di circa 60 mila precari, pianificato dal “Decreto sviluppo”. L’apparente contraddizione è nei fatti giustificata dalle previsioni di pensionamento e dai posti vacanti. Più esattamente, nel decreto si afferma che «è definito un piano triennale per l’assunzione a tempo indeterminato di personale docente, educativo e Ata, per gli anni 2011-2013, sulla base dei posti vacanti e disponibili in ciascun anno, delle relative cessazioni del predetto personale e degli effetti del processo di riforma». Sembra insomma che alla fine dell’anno si aprano nuovi spiragli per la scuola.

 

Ciò non toglie che il vincolo dei 25-30 alunni nelle prime classi di ogni corso, imposto dalla “Legge Gelmini”, abbia rappresentato un problema didattico per molti docenti, con la prevedibile penalizzazione degli alunni più fragili per i quali, considerata la densa popolazione della classe, è divenuto difficile se non impossibile personalizzare l’insegnamento. Tale operazione ritenuta invece fondamentale per una scuola efficiente. Anche la riduzione del monte‑ore di alcune discipline (spesso quelle caratterizzanti, oltre alle attività di laboratorio) ha presentato degli inconvenienti: dai libri di testo non sempre in linea con le nuove esigenze didattiche all’impossibilità di conservare la fisionomia delle materie impartite. Ma era chiaro, fin dall’inizio, che la riforma teneva in pochissimo o nessun conto questo aspetto dell’istruzione, preoccupata per lo più di questioni di natura economica.

 

L’evento di maggior rilievo mediatico è stato senz’altro il moto di protesta che ha dato luogo all’ondata di scioperi e occupazioni che hanno attraversato il Paese da Nord a Sud negli ultimi mesi del 2010. Del fenomeno si è discusso lungamente e il giudizio espresso a riguardo è stato spesso condizionato da ragioni politiche. In ogni caso, è emerso chiaramente il diffuso malessere per le scelte del governo relative al comparto scuola e, soprattutto, all’università, che è poi stato il vero casus belli.

In molti istituti, probabilmente nella maggior parte, le occupazioni hanno offerto spazi condivisi di riflessione e approfondimento, in altri gli studenti hanno approfittato della situazione per saltare qualche giorno di scuola. Ma i giovani sono giovani e non è a loro che bisogna chiedere di risolvere i problemi della pubblica istruzione.

 

Le polemiche del resto hanno accompagnato la scuola lungo tutto l’anno. La più vivace è venuta dal presidente del Consiglio, che ha rimproverato agli insegnanti di impartire agli alunni idee contrarie a quelle delle loro famiglie. Ancora una volta la china politica ha impedito di leggere con attenzione il fenomeno scolastico e la domanda relativa ai contenuti reali dell’istruzione, di antica memoria, è rimasta inevasa. Difficile dire se gli insegnanti impartiscano davvero idee contrarie a quelle professate dalle loro famiglie, anche perché riesce difficile credere che le famiglie italiane abbiano tutte le stesse idee; molto più difficile invece definire contenuti, metodologie, criteri di valutazione delle discipline scolastiche, a meno che non ci si accontenti di indicazioni generiche e non sempre condivisibili.

 

A conclusione d’anno si è tornato a parlare dei test Invalsi. La diatriba che continua a spaccare in due il corpo docente sembra non trovare pace: se una parte degli insegnanti intravede nella valutazione nazionale la possibilità di una maggiore trasparenza e di un più alto riconoscimento sociale, un’altra parte fiuta il pericolo di un eccessivo controllo professionale e del consolidamento di un sistema clientelare. Per il momento siamo in attesa delle conclusioni che l’Invalsi ricaverà dal lavoro fatto, sperando che una valutazione intelligente dei dati fornisca gli spazi per un dialogo più proficuo.

 

Del resto, che l’istruzione si presti a vedute di segno opposto è ribadito anche dalle posizioni antitetiche di Paola Mastrocola – il cui libro Togliamo il disturbo (Guanda) sottolinea l’esigenza di un ritorno all’ordine –, e di Robert Hawkins, autore di un decalogo di vita scolastica che ritiene superati e poco educativi programmi, libri e perfino i prof. Bisogna tuttavia riconoscere che questi continui interventi sulla scuola hanno almeno ricondotto tutte le componenti sociali a confrontarsi sul futuro culturale dei nostri giovani e del nostro Paese. I due interventi che seguono vanno proprio in questa direzione: entrare nel merito del “problema Invalsi” senza pregiudizi.

Luca Gentile

 

Senza condivisione non si va da nessuna parte

Da anni i docenti fanno proposte di miglioramento del sistema di valutazione. Nell’ultimo rapporto Ocse emerge che l’Italia destina alla scuola solo il nove per cento della spesa pubblica, rispetto alla media Ocse del 13,3 per cento. Questa mancanza di investimenti nel campo dell’istruzione dovrebbe far riflettere.

Aiutare gli studenti nel loro percorso scolastico vuol dire incentivare la frequenza anche con borse di studio e trasporti adeguati. Se guardiamo al fenomeno della dispersione scolastica, vediamo che sono stati tagliati i fondi ai tanti progetti che aiutavano a fronteggiare l’abbandono, specialmente in Sicilia e Campania. I salari degli insegnanti sono tra i più bassi rispetto agli altri Paesi. E per quanto riguarda la “scuola‑struttura”, è sotto gli occhi di tutti la permanenza di edifici fatiscenti, specialmente nel Sud Italia.

 

Bisognerebbe poi condividere i passi precedenti alla valutazione Invalsi, guardare cioè a tutto il progetto nel suo insieme, porsi domande sulla scuola come luogo e comunità educante lasciata troppo spesso sola, con una delega pesante. Ritengo che il mondo della scuola non sia contrario alla valutazione in sé, ma a un tipo di operazione che non ha nessun legame, rapporto, verifica con quello che vive e necessita realmente la scuola italiana. La valutazione dovrebbe essere condivisa porgendo un’adeguata informazione e coinvolgendo in pieno gli attori. È un percorso lungo e difficile, ma è possibile intraprenderlo, con decisione, solo coinvolgendo tutte le agenzie che convergono nel mondo della scuola.

Patrizia Mazzola

 

Valutare: sì o no?

L’impressione è che dietro la polemica nei confronti delle prove Invalsi ci siano molte cose, diverse tra loro: il boicottaggio come forma usata da alcuni per esprimere disaccordo con la Gelmini; la ribellione (condivisibile) di fronte al timore che i risultati vengano usati per premiare il merito di insegnanti o mettere in competizione le scuole; la non abitudine della scuola secondaria di II grado a essere teatro di una valutazione esterna; la comprensibile irritazione degli insegnanti a cui si chiede sempre di più e si dà sempre di meno; un po’ di confusione circa il senso, gli obiettivi e i limiti di una valutazione standardizzata e l’approccio ideologizzato ai problemi della scuola, a cui non sfugge parte della nostra stampa.

 

La valutazione standardizzata è presente da lungo tempo nei Paesi anglosassoni, ma – negli ultimi dieci anni – l’esigenza di restituire alle scuole informazioni oggettive sui livelli di apprendimento è stata fatta propria da un numero crescente di Paesi: gli ambiti più valutati sono matematica e lingua nazionale. L’Italia si muove dunque nella stessa direzione degli altri Paesi e va ricordato che l’attuale Sistema nazionale di valutazione italiano è nato sotto il governo Prodi.

Ma andiamo con ordine. Se con quest’anno le prove hanno fatto il loro ingresso nella scuola secondaria di II grado, è già a partire dal 2007-08 che, nell’esame di Stato della scuola secondaria di primo grado, è stata inserita una prova nazionale messa a punto dall’Invalsi.

 

Nella scuola primaria (classi II e V) le prove Invalsi sono state introdotte nel 2008-09. Il primo anno, a parte le 1069 scuole estratte per il campione che fornisce informazioni a livello di sistema (su scala nazionale e regionale), l’adesione delle scuole è stata opzionale: 4234 scuole primarie hanno aderito.

A partire dal 2009-10 invece, la partecipazione è stata obbligatoria e alla scuola primaria si è affiancata la scuola secondaria di I grado (classe I). Il numero delle scuole, tra primarie e secondarie di I grado, è così salito a 9600 per un totale di 87.800 classi e 1.715.000 studenti (ai quali si sono aggiunti altri 585.000 studenti che hanno svolto la prova nazionale nell’esame di Stato alla fine del primo ciclo). Una bella sfida anche per l’Istituto nazionale di valutazione, che però ha retto l’onda d’urto ed è riuscito, da una parte a costruire un quadro su scala nazionale dei risultati degli studenti in italiano e matematica, dall’altra a fornire alle scuole informazioni comparabili sui risultati dei loro studenti.

 

È vero che le varie scuole hanno studenti molto diversi e partono da punti di partenza differenti (per questo l’Invalsi sta lavorando per

elaborare misure che tengano conto proprio delle caratteristiche socio-economiche e culturali degli studenti che compongono le diverse scuole), ma il mondo che aspetta gli studenti al di fuori della scuola è uguale per tutti, sempre più planetario, e non fa sconti a chi parte svantaggiato.

Il fatto di avere informazioni, a livello di sistema, su livelli e differenze nei risultati dà la possibilità di pensare interventi che aiutino a colmare i divari. Il fatto di sapere, a livello di singola scuola, punti di forza e debolezza dei propri studenti, dà la possibilità di coordinare il lavoro per progettare interventi di miglioramento.

 

L’effetto non desiderato delle prove standardizzate è che nella scuola si cominci a dedicare tempo ed energia ad “addestrare” i ragazzi a rispondere alle domande della prova, invece che ad apprendere meglio le cose che sono veramente importanti. Si verifica così “un’inflazione” nei punteggi delle prove: i punteggi salgono, ma gli apprendimenti no, anzi rischiano di diminuire, se per addestrare alle prove si è trascurato di fare altro.

Dunque sì alle prove Invalsi come strumento che dà informazioni utili e importanti: sì perché gli studenti hanno il diritto (oltre che il dovere), di raggiungere livelli sufficienti di risultati dovunque si trovino in Italia, a qualunque scuola siano iscritti e da qualunque condizione provengano, e i dati oggettivi delle prove standardizzate aiutano a capire se i traguardi auspicati sono stati raggiunti oppure no e quanto manca per raggiungerli.

 

No all’uso dei risultati delle prove Invalsi per premiare il merito o sanzionare il suo presunto opposto e neanche per mettere in competizione tra loro le scuole. No perché le misure offerte dalle prove sono comunque parziali e vanno affiancate ad altri elementi per avere un quadro completo degli apprendimenti. No, perché un uso dei punteggi delle scuole fatto dall’esterno, per prendere decisioni su di esse, rischia di rendere quei punteggi inattendibili e di incidere negativamente su quegli stessi processi di insegnamento/apprendimento che si volevano monitorare.

 

Sì all’uso delle prove Invalsi, piuttosto, per individuare buone pratiche da diffondere e situazioni problematiche da aiutare. Coinvolgendo, però, in prima linea le scuole e lasciando ad esse la decisione se rendere o meno pubblici i propri dati.

Solo in un clima di fiducia e collaborazione si può pensare di innescare una positiva dinamica di cambiamento. Questo è il cammino che si sta facendo nei Paesi e nei sistemi scolastici che hanno risultati elevati – come la Finlandia e il Canada – o che sono riusciti a imboccare la via del miglioramento – come la Polonia e il Portogallo – in base ai dati delle indagini internazionali.

Mimma Siniscalco

 

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