Ttip e disordine globale

Il trattato commerciale tra le due sponde dell’Atlantico risponde a un interesse geopolitico del mondo occidentale, con inevitabili interessi anche sul piano militare. Sullo sfondo la competizione tra Cina e Usa. La necessità di un dibattito aperto e informato
ttip

Dopo il via libera del Parlamento europeo dell’8 luglio, si svolgerà  a Bruxelles, dal 13 al 17 luglio, il decimo incontro bilaterale tra Unione europea e Stati Uniti per definire i contenuti di un trattato commerciale (“Transatlantic Trade and Investment Partnership”) destinato a creare la più vasta area di libero scambio al mondo (50 per cento del Pil). La versione definitiva dovrebbe arrivare ad inizio del 2016.

 

I giornali ne parlano, ma sembra una questione per pochi esperti mente la Rai trasmette, ogni tanto, un filmato che non è informativo, ma solo un suggestivo spot pubblicitario, anche perché il governo Renzi è tra quelli più convinti della bontà del progetto che viaggia in parallelo con un simile accordo che gli Usa stanno concludendo tra 12  Paesi dell’area del Pacifico (Usa, Canada, Australia, Nuova Zelanda, Giappone, Messico, Malesia, Cile, Singapore, Perù, Vietnam e Brunei). Non si tratta solo di togliere i dazi alle merci per farle circolare più liberamente, ma di semplificare e uniformare le diverse regole applicate ai beni e servizi. Tra queste regole “tecniche” (o come si dice ancora “barriere non tariffarie”)  vanno comprese quelle ambientali e di sicurezza alimentare, affidando ogni eventuale controversia futura tra stati e aziende private a forme di giustizia arbitrale (non sottomesse cioè all’entità pubblica che è parte in causa).

 

Il più grande e convinto sponsor del Ttip è il vice ministro dello Sviluppo Economico, Carlo Calenda, che in sede istituzionale ha evidenziato l’importanza politica che avrebbe il «successo rapido dell’accordo» perché «rimetterebbe al centro della globalizzazione i valori delle economie liberal democratiche, oggi sfidati in molte parti della Terra». Il vice ministro ha invitato, infatti, ad osservare che «Il mondo non è diventato piatto né dal punto di vista economico né da quello politico. Aree di faglia sempre più instabili vanno allargandosi un po’ ovunque, dal Mar cinese meridionale al Mediterraneo, fino all’Europa dell’Est». Per questo motivo, ad esempio, «non possiamo non domandarci quanto la conclusione rapida del Ttip, comprensivo di un capitolo sull’energia, possa rappresentare, ben più delle sanzioni, un utile contrasto all’azione della Russia». I contorni dell’accordo, ha rivelato Calenda, sono già stati studiati per due anni dall’ “High level group” prima ancora che, nel luglio 2013 iniziassero le trattative ufficiali criticate, in un primo tempo, per mancanza di trasparenza

 

Per comprendere la linea strategica che accompagna i lavori del Ttip è stato importante il seminario di studi a porte aperte intitolato “L’Occidente nel nuovo disordine globale” organizzato il 4 dicembre del 2014 presso il Centro Alti Studi Difesa dalla Fondazione Magna Carta e dal Centro Studi Americani con il patrocinio dell’Ambasciata statunitense a Roma e il patrocinio del ministero degli Esteri italiano.

 

Il tema riguardava direttamente il Ttip perché i trattati commerciali non sono estranei agli equilibri geopolitici e le domande poste da Francesca Traldi, segretaria generale della Fondazione Magna Carta che è il pensatoio italiano del liberalismo di stampo anglosassone, vanno al cuore del tempo attuale aperto ai più diversi scenari: «stiamo assistendo all’inizio della fine dell’Atlantismo tradizionale e all’emergere di una concorrenza “USA contro Cina?" Washington e Pechino si lanceranno nella sfida per il titolo di prima potenza mondiale da conquistare o, nella competizione permanente, daranno vita ad un’inedita cooperazione, trasformando il vincolo tra debitore e creditore in alleanza strategica? L’idea di una cogestione globale Stati Uniti-Cina suggerita dall’amministrazione Obama come via maestra per uscire dalla crisi della finanza USA (G2) è ancora una via percorribile? Quale spazio avrà l’Europa in questo nuovo scenario geopolitico? Quale l’Italia?».  

 

Proprio per rispondere a questo ultimo interrogativo, nel seminario di dicembre si è sottolineato il ruolo possibile del nostro Paese al di là del potere economico o militare, ma come “soft power” e cioè la «capacità d’incidenza sotterranea, quasi invisibile, non quantificabile in modo preciso: un potenziale che rivela, però, la sua forza dirompente nella consapevolezza generale della sua importanza storica, artistica, scientifica, religiosa e culturale». Tale innegabile “soft power” andrebbe, secondo l’ambasciatore Guido Lenzi del Centro Studi Americani, «a disposizione del “hard power” americano, proprio in quella combinazione di strumenti militari e civili che le circostanze ormai richiedono». In questa prospettiva «il Partenariato per il Commercio e gli Investimenti Transatlantici (Ttip), assieme ai valori condivisi, dovrà concorrere ad innervare un rinnovato, più consistente rapporto euro-americano».

 

Ogni questione tecnica sulla qualità e sicurezza del cibo, i diritti dei lavoratori e la tutela dell’ambiente appare perciò, in questa visione, una dialettica facilmente superabile nel quadro di un’integrazione sempre più stretta tra Paesi che condividono la stessa visione del mondo occidentale e liberale. Su tale presupposto, l’Istituto Bruno Leoni, alfiere del pensiero liberista in Italia, è ricco di una produzione scientifica intesa a dimostrare la mania complottista che si nasconde nelle critiche avanzate dalle associazioni radunate sotto il cartello Stop Ttip. Il direttore ricerche dell’Istituto, Carlo Stagnaro, è il capo della segreteria tecnica del Ministro dello sviluppo economico, Federica Guidi, dopo aver ricoperto la carica di consigliere per l'energia e le liberalizzazioni.

 

I tempi sono brevi. Bisogna agire rapidamente con l’approvazione del Ttip come ripete il viceministro Calenda, perché «il mondo non è piatto» e, infatti, al di là della possibile cogestione pacifica tra Usa e Cina, secondo il recentissimo “2015  National Military”, il libro bianco sulla difesa redatto ogni quattro anni dal Pentagono,  esiste «una bassa ma crescente “probabilità” che gli Stati Uniti possano combattere una guerra con “una maggiore potenza” con conseguenze "immense"».

   

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