Torti e ragioni del Líder único

L’epopea di Fidel: la vittoria dei barbudos contro Batista, lo stato monopartitico di stampo marxista, gli errori degli Usa e l’abbraccio dell’Urss, la grande paura del 1962, la degenerazione degli ultimi anni di dittatura. Un mito senza fine?
Castro

A meno di 7 giorni dalla morte di Fidel Castro, tra le onoranze funebri ancora in corso all’Avana e in altre città cubane e le proteste, i cortei e le manifestazioni organizzate da fuorusciti, ex detenuti politici e oppositori cubani al regime castrista, rischia di complicarsi il già arduo tentativo di rileggere con serenità la vita, la personalità e l’azione politica del leader rivoluzionario. Ovviamente saranno gli storici a dire l’”ultima” parola (virgolette d’obbligo in quest’era di revisionismi), ma intanto non ci sembra fuori luogo ripercorrere a volo d’uccello le fasi salienti di questa “epopea”. Per qualcuno, almeno, è tale. Tutto inizia 60 anni fa, quando Fidel Castro, rientrato a Cuba dall’esilio in Messico, organizza l’insurrezione e la guerriglia contro la dittatura di Fulgencio Batista, particolarmente odiosa e oppressiva.

 

In poco più di 2 anni il gruppo di 80 uomini (i mitici barbudos) sbarcato con Castro sull’isola evolve in un forte movimento politico-militare sostenuto dal popolo, che provoca la fuga di Batista e il crollo del suo regime poliziesco e corrotto: una fine accelerata invece che impedita dal fallito sbarco alla Baia dei Porci, a sud de L’Avana, di esuli cubani sostenuti dagli Usa. Era il 1° gennaio 1959 e, con i mitici compagni della prima ora – il fratello Raúl, Ernesto Che Guevara, Camilo Cienfuegos e Juan Almaida Bosque, morti gli ultimi 3 nel 1967, nel ’59 e nel 2009 -, Fidel apriva nella storia di Cuba e dell’America Latina un capitolo del tutto nuovo, destinato ad attirare per oltre 50 anni l’attenzione del mondo. E che ancora non si è chiuso, pure dopo la morte del suo protagonista.

 

Dal 1959 al ’76 il fondatore della Repubblica di Cuba è Primo Ministro; poi fino al 2008 sarà Presidente del Consiglio dei Ministri e Primo Segretario del Partito Comunista, sola forza politica del Paese, e in tale doppio ruolo diventa negli anni il Líder máximo (più esatto sarebbe dire Líder único!) dello Stato e del popolo: un titolo che ultimamente, finché poté fare i suoi interminabili discorsi (4 ore in media, mentre la gente faceva i picnic ai piedi del monumentale palco di Plaza de la Revolución), Castro teneva a enfatizzare più che mai. A questo punto, se ci chiediamo che tipo di Stato e di società avessero progettato Fidel e i suoi, tocchiamo il cuore del problema.

 

Dichiarazioni, documenti, testimonianze e media degli anni ‘59-’61 dicono chiaro e tondo che la nuova repubblica cubana, nata sul modello delle democrazie liberali d’Occidente e anche latinoamericane come il vicino Messico, diventò uno Stato monopartitico di stampo marxista e socialista solo alla fine del 1961. Il motivo? Per quanto si sa, furono gli Stati Uniti a sbagliare politica, avversando e minacciando la nuova realtà cubana, avviando una guerra diplomatico-economica che sarebbe arrivata fino all’embargo (tuttora in corso) e tentando addirittura di rovesciare il regime castrista con le armi.

 

Agli americani, avvezzi a lucrare da decenni sul business più o meno losco con l’isola caraibica e i suoi regimi marci, mancò la cultura giusta e la politica giusta, di fiducia e di prudente attesa, che forse avrebbe fatto rimanere la Cuba di Castro in Occidente, come gli altri Paesi latinoamericani. E l’Urss ne approfittò subito, facendone un suo satellite, sia pure sui generis, e contribuendo fortemente a orientare la natura e l’azione del nuovo Stato e del suo leader fino a oggi. Non solo in politica estera ma pure interna (repressione di dissidenti e oppositori, carcere duro, censura, esilio, veline, controllo ferreo stile Kgb ecc.) e sociale: statalizzazioni e collettivismo, si sa quanto inadatti a dare benessere e ricchezza.

 

Il resto è cronaca sempre più vicina. L’”impero del male” cade, Cina Popolare e Cuba rimangono i soli Stati comunisti del mondo, Castro continua tetragono a guidare un Paese marxista. Poi con Obama e la mediazione di papa Francesco si avvia il disgelo e le relazioni con Usa ed Europa tornano (per ora) più distese. Ma il regime nato nel ’61, quando Fidel secondo Mao-Tse-Tung era “un cagnolino che scodinzolava ai piedi di Kruscev”, è in sostanza quello lasciato il 25 novembre, giorno della morte del caudillo. Il partito è ancora unico, ed è proprietario-produttore-controllore di tutto e di tutti. Il totalitarismo perfetto.

 

I meriti di Castro? Aver fatto una rivoluzione giusta, abbattuto un regime putrido e tirannico, difeso l’onore e l’autonomia di Cuba e tentato per oltre 50 anni di promuovere e gestire una società giusta, solidale ed egualitaria. Le colpe? Essersi legato troppo all’Urss, fino a combattere con le armi in Africa Orientale per difendere interessi sovietici e, peggio, facendo rischiare al mondo la 3a Guerra mondiale (atomica!) con i missili sovietici ammessi sul suolo cubano (la grande paura del ’62, come si ricorderà).

 

Ma le colpe maggiori secondo noi sono interne. La dittatura, la repressione dei diritti civili, inclusa la libertà religiosa; la propaganda ideologica, lo strapotere dei servizi, il controllo dell’informazione (piena di bugie manicheistiche), gli scarsi effetti ottenuti dalle pianificazioni economiche e dunque il basso tenore di vita della popolazione. Un altro “reato” si può imputare a Castro, e cioè la creazione di una mitologia gigantesca, forse la più diffusa, tenace, esuberante e colorata della seconda metà del ‘900. Ma in ciò è stato efficacemente coadiuvato dal suo compagno Che Guevara, che lasciò la poltrona di ministro dell’industria della neonata Cuba socialista (dove aveva combinato poco, però) per esportare la rivoluzione dei barbudos in tutta l’America Latina.

 

Castro, Cuba, El Che, la rivoluzione tra le palme, davanti al mare Caraibico al suono dei ritmi latinoamericani e la morte del Guerrillero Heroico in Bolivia nel ’67 combattendo contro l’esercito locale son stati e continuano a essere (e la morte di Fidel li sta riattizzando) i miti dei liceali di un sacco di generazioni. Patetico e un po’ irritante, invece, quando tutto questo armamentario mitologico viene coltivato dai radical chic o dai divi del grande e piccolo schermo. Che forse somigliano a Fidel solo nelle ville, nelle continue avventure galanti e nei conti in banca che possiedono.

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