Terracina, quella vera

L'antica città alta, un mondo a parte rispetto a quella balneare e moderna.
terracina

Giace nel vasto seno che s’incurva fra i promontori del Circeo e di Gaeta. È Terracina, l’Anxur dei volsci, popolo italico che invano cercò di contrastare – a partire dal 406 a.C. – l’inarrestabile avanzata romana. Terracina fedele nei secoli al papato, avendo in esso trovato fin dal Medioevo protezione contro le angherie dei feudatari, garanzia di autonomia comunale e interessamento per il suo secolare problema: la bonifica delle vicine paludi pontine.

 

Se il cuore religioso dell’antico insediamento, l’acropoli, va localizzato in cima al monte Sant’Angelo, dove ancora si ergono le costruzioni del celebre santuario di Giove (più in basso è il caratteristico pinnacolo roccioso del Pesco Montano, tagliato alla   base da Traiano     per consentire

l’accesso via mare dell’Appia), il cuore civile era ed è tuttora nella città alta: nella piazza del municipio, corrispondente al foro repubblicano, che quella stessa via Appia lambiva. Unico forse

tra i fori dell’antichità che continua ad essere il centro vitale di un nucleo urbano, avendo conservato intatto perfino il suo lastricato.

 

La piazza strapiomba a mezzogiorno, verso il mare, col moderno palazzo del Comune vigilato da una torre del XIII secolo, sede di un piccolo e interessante Antiquarium; ma centro di essa è la cattedrale, che ingloba i resti di un tempio pagano e dall’alta gradinata fa sfoggio di un elegante portico cosmatesco. L’attiguo Palazzo Venditti, di nobile architettura trecentesca, spicca armonioso malgrado i rimaneggiamenti subiti nei secoli.

 

Qua e là affiorano rovine non solo romane, ma anche medievali e di epoca più recente, a testimoniare il martirio di una Terracina brutalmente provata dai bombardamenti       dell’ultima guerra. Essi hanno sconvolto il tessuto di questa millenaria città, aprendovi vuoti non del tutto sanati:

unico dato positivo, l’opera di scavo archeologico fatta dalle bombe, col far riemergere in più punti vestigia che altrimenti sarebbero rimaste per sempre nascoste. Ma incalcolabili sono state le ferite dell’anima, per l’esodo dalla città distrutta di quasi tutta la popolazione superstite, costretta a ricominciare la sua vita altrove: me lo racconta pacato un anziano del posto, uno dei pochi terracinesi "autentici" rimasti.

 

Se non fosse per il fumo di qualche camino, parrebbero disabitate molte delle case e torri che, senza ordine, si arrampicano a nord della piazza su un pendio accidentato, cosparso di brandelli di mura. Vi si riconosce appena la cavea del teatro: appoggiato quasi alle mura castellane e con la scena parallela al lato lungo del foro, esso consentiva agli spettatori la visione stupenda della vallata e del mare, con lontano la sagoma inconfondibile del Circeo.

 

Qui le bombe hanno demolito senza pietà, e le costruzioni rimaste sembrano smarrite, isolate in un loro dignitoso dolore, laddove un tempo si sostenevano a vicenda, fitte di abitanti e sonore di voci, di richiami, tra il reticolo di vicoli ora scomparsi. L’abitato, man mano che ci si inoltra, continua ad offrire insolite suggestioni per gli scorci di edifici nobili e casupole semidiroccate, anfratti rocciosi e rovine romane. È la Terracina più vera questa, dolente e silenziosa. Che non ha confronto con quella moderna, balneare, che ferve più in basso.

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