Sul Golgota di Bartabas, tra cavalli e flamenco

Questo spettacolo di pura poesia visiva ed emotiva è andato in scena dopo una lunga preparazione al teatro dell'Opera di Roma. Per Bartabas è stato un ritorno alle origini
Golgota Foto di scena ©Nabil Boutros

Da Zurbaran a Goya a Velasquez. C’è tutta la grande pittura spagnola e la teatralità cattolica con incensi, candelabri, croci, processioni. E canti gregoriani e figure di flagellanti e di penitenti. Un’atmosfera di forti chiaroscuri, di costumi seicenteschi con gorgiere, di copricapi a punta della Settimana Santa sivigliana, di silenzi pregni, di liturgie severe. Tutto questo condensato in pochi elementi e in due figure umane e quattro cavalli, tableaux vivent che evocano un mondo, un’epoca, un passato e un presente.

 

È “Golgota”, spettacolo di pura poesia visiva ed emotiva a firma di Bartabas, il celebre fondatore del Théâtre équestre Zin­garo, raffinato e poetico mix di musica, arte figurativa, teatro e danza unito alla magia equestre, approdato all’Opera di Roma segno della nuova linea di apertura ad altri linguaggi dell’ente capitolino. Rappresentazione intima rispetto a quelle più spettacolari di Bartabas, “Golgota” si inserisce nella scia dell’ultimo “Il centauro e l’animale” con il danzatore butoh giapponese Ko Murobushi, e, già dal titolo, tradisce una matrice religiosa, che sembra coincidere con una personale ricerca spirituale dell’artista.

 

Quei purosangue, docili ed espressivi come fossero umani, che ci dicono il potere e la bellezza della natura, sono i veri protagonisti, messi in relazione con il danzatore Andrés Marin, fuoriclasse del flamenco contemporaneo. L’inizio è con l’ingresso di un cavallo nero seguito da Marin che si flagella usando come frusta la lunga coda dell’equino. Poi comincia a danzare mettendo sulle dita dei ditali metallici che usa come i tacchi ritmando su lastre di legno; si muove a piedi nudi sulla sabbia nera che copre il palcoscenico; disegna passi e traiettorie riprese dai destrieri che entrano eseguendo giri e scalpitii, fino a scivolare a terra, rotolare dolcemente e rialzarsi con forza.

 

Si inalberano, si prostrano, dialogano col danzatore avvicinandosi al suo volto, con Bartabas sempre in sella a formare con essi un’unica entità, mentre danza con le braccia e la testa accompagnando il loro movimento e il respiro. Si succedono sequenze di rosse e nere vestizioni al centro della scena e su un trono dove Marin siede immobile, danzandovi sopra, o solo osservando gli interlocutori equini, oppure omaggiato regalmente e con una lavanda dei piedi da parte del maestro di cerimonie. Sequenze la cui severità è a tratti rotta da attimi burleschi come quando il penitente entra in scena montando su di un asino.

 

A far da collante, drammaturgia nella drammaturgia, è la musica mistica del compositore del XVI secolo Tomàs Luis de Victoria, un canto gregoriano per voce sola i cui mottetti per controtenore sono accompagnati da corno e liuto. Cantante e musicisti in costumi d’epoca si muovono in scena determinando il climax dello spettacolo. Tutto va a comporsi infine in un’implorazione al cielo: una crocifissione accompagnata da una tempesta di luci, di tuoni e vento, con il “bailor” che sale la lunga scala – l’ascesa al Golgota – battendo i piedi trasformati in zoccoli equini. “Non è la morte che m’ispira – dichiara Bartabas – ma la resurrezione”. Un ritorno, per l’artista, alle sue origini.

 

Creazione,coreografia e interpretazione Bartabas/Andrés Marín, ideazione, scenografia e messinscena Bartabas, con i cavalli Horizonte, Le Tintoret, Soutine, Zurbarán e l’asino Lautrec, controtenore Christophe Baska,cornetta Adrien Mabire, liuto Marc Wolff, attore William Panza, costumi Sophie Manach e Yannick Laisné, luci Cyril Cottet, regia Eric Tartinville.

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