Sul fronte della pace

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Per i soldi o per l’onore? Un giudizio da sempre controverso quello riguardante la presenza dei nostri militari nelle missioni di pace, sul quale certo il contenzioso politico sull’Iraq non ha contribuito a fare chiarezza. Catalizzando anzi l’intero dibattito, come fosse l’unica missione in cui i nostri militari sono impegnati. Ne parliamo di seguito con Sergio Marelli, presidente dell’Associazione ong italiane. Ma intanto registriamo un dato interessante: quasi centomila giovani, a un anno dall’abolizione della leva obbligatoria, si sono messi in fila per entrare nell’esercito da volontari, superando di gran lunga l’effettiva disponibilità di posti, 25 mila. Sono per lo più ragazzi intorno ai vent’anni, provenienti dal sud nel 69,5 per cento dei casi, dal centro per il 21 per cento, dal nord per il 9,5 per cento. Al primo posto la Puglia, seguita da Campania, Sicilia e Lazio. Per tre quarti sono diplomati anche perché un esercito che si definisce di professionisti, richiede una preparazione sempre più completa che non trascura la conoscenza delle lingue e dell’informatica. Fascino della divisa o ricerca di lavoro? L’uno e l’altro sicuramente, anche se non si può negare che prestare servizio militare è diventata la strada principale per partecipare ai concorsi per entrare in Polizia, Carabinieri, Corpo forestale, Vigili del fuoco o, comunque, per tentare la carriera nell’esercito. Una carriera che sempre più spesso potrebbe portarli oltre i confini nazionali. È da queste forze, infatti, che il nostro paese prende i militari che vengono inviati all’estero nelle tante missioni di pace o comunque di ricostruzione. Diecimila i nostri uomini attualmente impegnati in ventinove operazioni nei più diversi contesti, dalla Bosnia al Kosovo, dalla Macedonia all’Africa, dal Libano alla striscia di Gaza, dal Pakistan all’Afghanistan e all’Iraq… Tre le missioni di pace che attualmente ci vedono al comando: Kosovo, Afghanistan, Bosnia, dove la presen- za dei nostri militari ha già compiuto dieci anni. Ma cosa sono effettivamente queste missioni? Secondo una definizione data dalle Nazioni unite, esse sono interventi condotti da forze armate multinazionali, costituite da contingenti messi a disposizione dagli stati membri, al fine di prevenire, contenere o far cessare le ostilità in un conflitto di carattere internazionale o interno (The Blue helmets, A review of the United nations peace-keeping, UN, New York, 1996). Fra le condizioni che le rendono operative è prevista la richiesta di uno stato sovrano e una risoluzione del Consiglio di sicurezza dell’Onu. Inizialmente consideravano fra i propri compiti la sorveglianza del rispetto degli accordi, l’interposizione fra le parti in conflitto e la prevenzione di atti di violazione degli accordi stessi. Di fatto tali missioni hanno subito un’evoluzione. Col passare del tempo la loro attività si è estesa a processi di ricostruzione dello stato, assistenza ai profughi, aiuti umanitari, attività di controllo sull’ordine pubblico, supporto alle attività del governo locale. Una trasformazione, dunque, che va a toccare aspetti sempre più controversi di queste missioni, primo fra tutti il necessario distinguo fra l’intervento militare e quello civile. Quasi più nessuno nell’ambito della peace research contesta il fondamentale ruolo di controllo della violenza che possono avere le forze armate internazionali in un teatro di guerra, anche se l’azione militare, da sola, non risolve i conflitti, sostiene Francesco Tullio, presidente del Centro studi difesa civile. Concorda il generale Del Vecchio secondo il quale ci vogliono soggetti diversi per tempi diversi. Ad esempio quando siamo arrivati in Kosovo abbiamo trovato una situazione disastrosa: salme abbandonate per strada, nessuna infrastruttura funzionante, non esisteva una polizia né una magistratura. Così abbiamo dovuto occuparci di tutto, dal pulire le strade, dare assistenza ai profughi fino a esercitare la giustizia e garantire l’ordine. Compiti che poi abbiamo ceduto ai soggetti civili competenti quando sono arrivati. L’ e s p e r i e n z a della Bosnia – racconta Giuseppe Terrasi, giovane volontario prima, inviato dell’Ocse poi ed attualmente impegnato a livello universitario per la peace education – è un caso di scuola nel campo del peacekeeping: siamo a dieci anni dalla fine ufficiale della guerra, sancita dagli accordi di Dayton, e la presenza degli organismi internazionale e delle forze militari è ancora molto consistente. Quale bilancio si può trarre? Una premessa: in Bosnia la presenza militare è fondamentale e in questo modo è percepita dalle popolazioni. Ma è solo uno degli elementi della ricostruzione di un paese dilaniato dalla guerra. Non può essere l’unico. Non si può prescindere da interventi più piccoli, ma più vicini ai bisogni delle persone. Se non si riparte dall’educazione alla pace, non c’è futuro per la pace. Non basta lavorare sulla sicurezza se altre persone competenti non lavorano su scuola, sanità e su tutto ciò che serve a un paese civile , gli fa eco il comandante capo della polizia Antonio Evangelista, esperto del Kosovo. Insomma quella del peacekeeper, militare o civile che sia, è una professione che non s’improvvisa, si impara. Non a caso, forse, proliferano i corsi universitari volti a preparare giovani che nel proprio bagaglio mettano anche le conoscenze necessarie e la formazione adeguata ad affrontare situazioni che nella realtà sono ben più difficili che nell’immaginazione. UN IMPEGNO MULTIFORME Intervista a Sergio Marelli sulla presenza dei militari italiani nelle missioni di pace. Penso che sia difficile generalizzare le scelte per cui i militari decidono di andare nelle missioni all’estero – esordisce Marelli -. Non entro nel merito e inviterei tutti a non giudicare le scelte personali, immaginando che ci siano motivazioni diversificate e che quindi debbano essere lasciate alla coscienza dell’individuo. Certo, un dato di fatto sono le retribuzioni decisamente cospicue che vengono elargite ai militari. Ora che qualcuno lo faccia anche per questo di certo non è escluso. Non è un caso che statisticamente parlando c’è una rilevanza significativa di militari provenienti dalle nostre regioni del sud, così come nel contingente statunitense molti provengono dalle regioni più povere, dove la disoccupazione incide molto. Questo è un dato inequivocabile e, direi, molto indicativo. Forse a volte riguardo a queste missioni di pace non c’è una chiarezza di fondo… Sulla questione delle missioni di pace io penso che occorra fare una grande chiarezza. Innanzitutto perché quando si parla di missione di pace sì o no nell’immaginario comune scatta immediatamente la questione Iraq; ma non possiamo dimenticare che l’intervento militare in Iraq origina da una guerra unilaterale e preventiva al di fuori del diritto internazionale, cioè al di fuori delle decisioni delle Nazioni unite. Perché si possa parlare di missioni di pace occorre che queste operino dentro un quadro multilaterale e che svolgano operazioni di polizia internazionale. Ad esempio il discorso della Bosnia è diverso, come lo è la Somalia, come lo è la fortissima richiesta ancora inevasa per il Sudan. In queste missioni c’è sempre una componente militare e una civile. Quanto collaborano e quanto interferiscono fra di loro? C’è disponibilità alla collaborazione quando l’ambito è multilaterale, quando c’è coinvolgimento delle ong nell’assunzione delle decisioni su come intervenire. In tutti i casi, però, occorre che la distinzione dei compiti, dei man- dati e delle missioni sia assolutamente garantita. Non si può confondere o addirittura spacciare interventi militari per interventi umanitari; quando gli aiuti umanitari passano attraverso le divise e i mitra si fa una grande confusione che peggiora la situazione. Importante è, poi, collaborare con i partners locali. Questa è la miglior garanzia perché fin dall’inizio si possano creare le condizioni per la gestione a livello locale e il ritiro quindi del personale espatriato. Quando questo viene meno la questione diventa molto più difficile. Le ong nella gestione delle emergenze sono più brave delle strutture statali. Del resto l’umanitario è il loro unico impegno, mentre noi facciamo anche altro, avrebbe detto il capo della Protezione civile. È vero? C’è innanzitutto un riconoscimento che ci onora da parte di Guido Bertolaso che sottolinea ancora come la diversità e la pluralità degli attori che devono intervenire in situazioni complesse come quelle del post emergenza siano delle peculiarità che non solo vanno salvaguardate, ma vanno valorizzate. Ognuno deve fare il proprio mestiere, non ci devono essere sovrapposizioni perché poi chi ne va di mezzo è la popolazione locale. Secondo lei quale delle missioni di pace in cui siamo impegnati sta dando migliori risultati? I nostri contingenti di pace impegnati nelle forze multinazionali stanno dando dei risultati molto interessanti. Ne sono esempio la Somalia e l’area dei Balcani. In genere c’è un riconoscimento del nostro impegno anche perché purtroppo il confronto con altre forze militari è stato offuscato nel corso degli anni da scandali in cui altri contingenti sono incappati. Episodi di violazioni dei diritti in cui sino ad oggi, fortunatamente, i nostri militari sembrano non essersi imbattuti e possono quindi per questo risultare fra i migliori .

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