Strade di pace

Non userei il termine impresa, non abbiamo fatto nulla di particolare. Non c’è alcuna falsa modestia nelle parole di Alberto Fiorin, 45 anni, veneziano, nel raccontare il viaggio di 12 mila chilometri in bicicletta da Venezia a Pechino: Non siamo un gruppo di ciclisti maniaci del no-limits: basta guardarci, io sono il più giovane, l’età media è 58 anni, uno di noi ne ha 66. Cosa attira allora dieci amici a lasciare lavoro, famiglia, comodità per stare 96 giorni in sella, pedalando nella pioggia, sotto il sole cocente, attraversando boschi e deserti, affrontando cadute, furti, disagi? Ci accomuna la passione per la bicicletta, intesa non solo come attrezzo sportivo, ma come mezzo culturale per conoscere a fondo la gente, le realtà che si attraversano. Si attraversano e non si sorvolano. Ci proponiamo di usare la lente di ingrandimento della lentezza per capire un po’ di più il mondo, le sue ricchezze e le sue contraddizioni. La bicicletta è un mezzo che non frappone nulla fra sé e gli altri, nemmeno un parabrezza. Non solo pensano che siano cose che possono fare tutti, ma le ritengono consigliabilissime: Il problema non è il fisico: non siamo dei campioni, ma persone normalissime, con i fianchi rotondi, la testa un po’ lucida o i capelli bianchi. Il problema è trovare il tempo e… convincere le mogli a lasciarli andare: Da questi viaggi abbiamo avuto tantissimo: questo il motivo che ci farà sicuramente ripartire. In bici si vede il mondo con occhi diversi: bastano 20 chilometri fuori dalla porta di casa, senza arrivare a Pechino, per fare scoperte meravigliose. Di avventure in bicicletta questo originale gruppo di appassionati delle due ruote del Veneto ne hanno già alle spalle diverse: Ci piace definirci nomadi in bicicletta – spiega Aldo Maroso, una dei promotori del gruppo -. Tutto ha avuto inizio nell’89. Soffiava il vento della perestrojka, e decidemmo di andare in bici a Cernobyl per rendere omaggio ai pompieri morti per spegnere il reattore nucleare. L’anno dopo andammo fino in Siberia per visitare i gulag staliniani. La scintilla ispiratrice dei viaggi sembra scocchi ogni anno nel tradizionale appuntamento del gruppo per salire a piedi Cima Grappa sotto la luna piena di febbraio. Lì qualcuno ha lanciato la proposta di pedalare sulle orme di Marco Polo. Cosa li spinge a consumare le forze per tanti chilometri? Aldo non si tira indietro: Non si fanno queste cose se sotto c’è solo la bici, la passione sportiva. Dal condividere due ruote al condividere valori comuni sembra che il passo sia stato naturale: così è nata l’associazione Ponti di Pace che oggi li tiene insieme. Sulle strade per Pechino hanno voluto sostenere Uno per cento, un progetto di solidarietà. Nel 2004, Venezia-Gerusalemme, 33 giorni, 4 mila chilometri per sostenere la ricerca contro la leucemia. Altri motivi, dunque, oltre alla comune passione per la bicicletta, hanno nel tempo consolidato il gruppo: Ci ha mosso il desiderio di conoscere luoghi affascinanti – spiega Aldo, commentando insieme a noi le immagini di quel viaggio attraverso 12 nazioni -, come i deserti, le moschee di Istanbul, le città di Samarcanda o Bukara, la muraglia cinese, i guerrieri di terracotta di Xi’an. Ma quello che rimane nel cuore, quello che non potremo mai cancellare sono i volti della gente, i bambini nelle zone di guerra, le medicanti georgiane, i pastori ai confini fra Kazakistan e Cina. Alla fine ogni viaggio è un viaggio dentro ciascuno di noi, che ci invita a cogliere cosa è cambiato dentro di noi. Il viaggio in Cina ci ha fatto comprendere che abbiamo parlato tanto di messaggi di pace, ma che concretamente non abbiamo fatto nulla. Così, al ritorno, ciascuno, riflettendo su queste cose, si è detto che era ora di fare qualcosa di concreto. E questo è l’aspetto che più ha contribuito a cambiare la nostra fisionomia: da allora l’associazione ha cominciato ad impegnarsi in progetti piccoli, ma concreti, di solidarietà. Alberto ci illustra l’azione cui dedicano oggi tempo e risorse: Di ritorno da Pechino ci siamo resi conto che di solidarietà ne avevamo ricevuta di sicuro di più di quanta ne avessimo data. La nazione più disperata che avevamo attraversato era la Georgia: abbiamo scelto i settantacinque bambini dell’orfanotrofio di Surami, a 150 chilometri da Tbilisi, che hanno accolto per una notte questi originali vecchietti vestiti di giallo e di rosso, nella loro casa, dove non c’era né acqua, né luce, né gas. Questi bambini, che non avevano nulla, ci hanno dato tutto quello che avevano: la loro gioia, ballando alle note della fisarmonica degli anziani, accogliendoci come eroi. Al ritorno abbiamo sentito l’esigenza di comunicare la nostra esperienza attraverso un libro, Strade d’Oriente, i cui proventi vanno a loro, in forma di un container di vestiti, coperte, un paio di volte l’anno. Questa la molla che li spinge non solo a viaggiare, ma a continuare a pedalare per chi ha più bisogno. Ci siamo portati a casa una ricchezza impagabile – conclude Aldo -, un’esperienza unica, indimenticabile: servono anni per riuscire a sedimentare tante emozioni e tanti ricordi. Ma si sa, le gambe fremono, la bicicletta chiama: Ci troviamo la prossima settimana a parlare del futuro: ognuno ha un sogno, il mio è andare in Mesopotamia, a Baghdad, nella culla della civiltà. Sul letto, per ora, ha pronta la valigia per la Georgia: un viaggio, in aereo, per verificare la situazione dell’orfanotrofio di Surami.

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