Il 9 aprile scorso si è riunito un tavolo di dialogo a Sana’a, antica capitale di uno Yemen dilaniato da decenni di guerre a grappolo, dove non è ormai più evidente chi combatte contro chi e per cosa. La notizia è riferita da un funzionario yemenita e diffusa, non a caso, dall’agenzia stampa cinese Xinhua. All’incontro diplomatico avrebbero partecipato una delegazione mista saudita e omanita insieme ad una rappresentanza di leader Houthi, il movimento sciita zaidita sostenuto dall’Iran.
L’ambasciatore saudita in Yemen ha parlato di un incontro per rilanciare il cessate il fuoco, riaprire negoziati ed esplorare la possibilità di un dialogo per «raggiungere una soluzione politica sostenibile e completa». Quasi a conferma delle intenzioni di dialogo, dopo il lungo stallo, la decisione di liberare 13 prigionieri di guerra detenuti in Arabia e 1 prigioniero in mano agli Houthi. E questo sarebbe solo un anticipo di un accordo più ampio mediato il mese scorso dalle Nazioni Unite e dalla Croce Rossa che prevede lo scambio di 887 detenuti.
È abbastanza evidente che dietro l’annuncio della riapertura di una trattativa “yemenita” vi sia la recente ripresa di relazioni diplomatiche fra Iran e Arabia saudita favorita dalla Cina, e formalizzate nell’accordo siglato a Pechino nel marzo scorso.
Da marzo 2015, con l’entrata in guerra contro gli Houthi di una coalizione a guida saudita, ad oggi si calcolano circa 20mila vittime civili. Ma il conflitto interno e le lotte tribali in Yemen non erano certo iniziate nel 2015, ma almeno 4 anni prima. E in precedenza non era stato molto meglio (si parla complessivamente di 400mila vittime, ma si tratta evidentemente di stime). Il Covid-19 ha inoltre colpito oltre 200mila persone ed ha provocato più di 2.100 decessi, secondo quanto rilevato dall’Oms. Gli 8 anni di conflitto hanno comunque costretto 4,5 milioni di persone a sfollare e la stima attuale delle persone che hanno bisogno di assistenza umanitaria si aggira sui 22 milioni. La concentrazione di residuati bellici è tale che lo scorso anno in media ogni 2 giorni un bambino è stato ucciso o ferito dallo scoppio di mine o altri ordigni inesplosi abbandonati. «Le bambine e bambini in Yemen continuano a subire gravi violazioni – afferma Save the Children – e molti casi non vengono rilevati dal meccanismo di segnalazione. Le gravi violazioni contro i bambini includono il reclutamento, il rapimento, la violenza sessuale, la negazione dell’accesso umanitario, gli attacchi a scuole e ospedali…». E la malnutrizione colpisce oggi 2,2 milioni di bambini yemeniti.
In questi anni il conflitto yemenita ha coinvolto a vario titolo numerosi soggetti in una lotta senza quartiere di tutti contro tutti con alleanze e disalleanze ad assetto variabile e tentativi di mediazione per lo più interessata. Senza entrare nel complicatissimo meccanismo di chi combatte contro chi (che comporterà una trattativa di pace altrettanto ardua e complessa), e di chi sostiene chi, basta ricordare che sono coinvolti nel quadro del conflitto yemenita sia attori interni che regionali e internazionali.
Tra i principali attori interni vanno annoverati il Governo riconosciuto (ma esautorato), Ansar Allah (Houthi), l’ex Gpc di Saleh spaccato in 4 segmenti variamente posizionati, Islah (movimento legato ai Fratelli musulmani ed a gruppi salafiti e tribali vicini ad Arabia Saudita e Qatar), milizie varie legate al Consiglio di Transizione del Sud (Emirati Arabi Uniti), l’indebolito ma presente Al Qaeda, lo Stato Islamico (Is).
Tra gli attori regionali vanno considerati l’Arabia Saudita (che punta a tirarsi fuori dal conflitto, ma che fino ad ora non può farlo), l’Iran (che forse vorrebbe provare a tirarsi fuori dal sostegno ad Ansar Allah), gli Emirati Arabi Uniti (che sono stati parte attiva del conflitto), il Qatar (che ha sostenuto Islah), Israele (anti Houthi), l’Oman (il principale mediatore regionale con interesse a contenere sia Emiratini che Sauditi).
E gli attori internazionali coinvolti: gli Usa (anti-jihadisti), la Russia (in buoni rapporti con tutti o quasi per aprirsi spazi di influenza), la Cina (principale mediatore interessato a sviluppare la sua nuova via della seta), l’Unione europea (il maggior garante di varie diplomazie umanitarie).
Scrive Dario Salvi su Asianews del 11 aprile 2023: «I termini di un possibile accordo fra le parti al momento non si conoscono e non sono stati resi pubblici, ma dovrebbero includere il pagamento dei salari dei dipendenti pubblici, la riapertura di porti e aeroporti, e obiettivi più ambiziosi come la ricostruzione del Paese. E ancora, l’uscita di forze straniere presenti sul terreno e una transizione politica verso una nuova forma dello Stato». Un’impresa ciclopica e tutt’altro che scontata. Una speranza molto esile, ma la prima dopo decenni.
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