Spazio ai giovani: Radici al Palladium

Al Palladium di Roma è cominciata la maratona delle nuove drammaturgie. In scena, fino a stasera, il più giovane dei tre autori con il testo Radici, un delicato acquerello sui temi del ritorno, del ricordo e della morte
Al Palladium di Roma

Si è aperta mercoledì sera la maratona delle nuove drammaturgie al Palladium di Roma. Tre giovani autori hanno affidato le loro opere inedite ad altrettanti registi navigati ed ad attori di esperienza. L’esperimento, svolto nell’ambito della rassegna La provincia in scena, è un progetto ideato e curato da Rodolfo di Giammarco, storica firma de La Repubblica, che da alcuni anni guida un laboratorio di formazione per nuovi autori. È da questa prestigiosa officina che muove i suoi primi passi l’autore più giovane della rassegna, Niccolò Matcovich,24 anni, oggi allievo della scuola di drammaturgia Paolo Grassi di Milano. Lo incontriamo nel foyer del teatro, gremito di spettatori in fila per l’acquisto del biglietto. «Non mi aspettavo tutte queste persone, pensavo che saremmo stati quattro gatti!», esordisce candidamente. «Ho affidato il copione di Radici a Massimiliano Civica che ha lavorato con i suoi attori ad una personale lettura del testo. Il risultato è stato sorprendente: Massimiliano è davvero riuscito a capire il senso più profondo del mio lavoro».

L’operazione appare riuscita: sulla scena i due attori creano un’atmosfera glaciale che richiama alla mente l’immagine della casa immersa nel freddo nevoso della notte, dove i due personaggi, un uomo e una donna, restano come intrappolati in un dialogo sui temi del ritorno, del ricordo e della morte. La recitazione è piana, il testo si sbottona velocemente, i toni non sia alterano mai, ma galleggiano come note di bordone, creando una fitta trama ritmica. L’apparato scenografico è semplice, quasi povero, e richiama l’immagine intima e sconsolata di un tinello: un tavolo bianco, una bottiglia di latte, una tazza di latta rosso vivo. L’azione è quasi annullata, eccezion fatta per il reiterato gesto della donna che versa il latte nella tazza e lo porge all’uomo.

Nell’operazione, una sempre maggiore quantità di latte deborda dalla tazza e sgocciola dal tavolo fino al pavimento. L’immagine è desolante e condensa con lucidità lo stato di inerzia in cui i due protagonisti sembrano essere piombati. Uno stato in cui il dialogo torna sempre a ripercorrere il sentiero del già detto, nel rigoroso affermare della donna che ripete con cadenza regolare «Lo hai dimenticato!», e nel rassegnato «Sta bene…» dell’uomo, che non sa, oppure non vuole, staccarsi da questo meccanismo un po’ perverso.

Il testo così rappresentato sembra aver trovato quella forma compiuta che è propria di ogni drammaturgia. L’annosa questione di ciò che ci tiene legati, di quelle famose Radici che sono i rapporti umani, gli affetti, i ricordi, le abitudini, trova spazio nell’acquerello delicato e poetico disegnato da Massimiliano Civica. Il regista valorizza la bella penna di Niccolò Matcovich, avvicinandosi però pericolosamente alla linea di confine che divide la ricerca di un proprio linguaggio espressivo dal mero esercizio di stile.

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