Sì alla “messa in prova” per reati non gravi

Finalmente emanata la legge, a lungo attesa, che ha introdotto per i colpevoli di reati non gravi la possibilità di chiedere, prima ancora del processo, di sottoporsi ad un programma di messa in prova. Il reo si impegna ad attenuare le conseguenze sociali del suo reato, con attività di volontariato e un’eventuale mediazione con la vittima. Molte luci e alcune ombre nel sistema di pene alternative al carcere

La “messa alla prova”, introdotta con la legge del 28 aprile 2014 n.67, è un istituto fortemente innovativo per il nostro ordinamento. Prevede che una persona imputata, che deve ancora subire un processo, possa richiedere al giudice competente di sospendere il procedimento, sottoponendosi a quello che viene definito un “programma di trattamento”.

Non tutti i procedimenti possono essere sospesi, solo quelli relativi a reati per cui è prevista una pena pecuniaria o carceraria non superiore a quattro anni. Inoltre tale opportunità favorevole può essere concessa solo una volta.

Il programma proposto dall’imputato stesso, nel concreto è una sorta di progetto che deve essere concordato con l’Ufficio di Esecuzione Penale Esterna, ossia con il Servizio Sociale che opera nel settore penitenziario e deve prevedere l’assunzione di impegni specifici. E’ importante sottolineare che si tratta di impegni non limitati a rispettare semplici divieti, ma che coinvolgono, responsabilizzano e attivano la persona.

Questa infatti deve impegnarsi, insieme alla sua famiglia e al suo ambiente di vita, in un percorso di reinserimento sociale, nello svolgimento di un lavoro di pubblica utilità, nell’attuazione di comportamenti e impegni per attenuare le conseguenze del reato, come attività di volontariato o risarcimento del danno provocato con il reato. Inoltre l’imputato, se possibile, deve promuovere, col supporto di operatori specializzati, condotte finalizzate a trovare una mediazione con la vittima del reato.

Tale impegno, che rappresenta una assoluta novità nell’ordinamento degli adulti, raccoglie l’esigenza di una maggiore attenzione nei confronti delle vittime. Se il progetto è ritenuto adeguato, il giudice dà avvio alla messa alla prova stabilendone prescrizioni e tempi. L’esito positivo della prova comporta l’estinzione del reato.

La messa alla prova è un istituto sperimentato da molti anni positivamente nel processo minorile e che in realtà da tempo era atteso e auspicato anche per gli adulti. La resistenza e la lentezza con cui si è arrivati a varare una legge di tale tipo, va ricercata in pregiudiziali ideologiche e prudenze politiche, piuttosto che nelle esigenze concrete. Chi opera nel settore sapeva da tempo che questa era una delle soluzioni auspicabili e possibili.

La Corte Europea ha sospeso la grossa multa che pendeva sull’Italia a causa del grave problema del sovraffollamento, in quanto ha riconosciuto lo sforzo di affrontare il problema non solo con provvedimenti tampone, come avrebbe potuto essere un indulto, ma cercando di iniziare ad intaccare alcune delle cause strutturali che lo hanno determinato. La “messa alla prova” infatti è solo uno dei provvedimenti contenuti in una legge che delega il Governo ad emanare in tempi brevi altri decreti che vanno nella stessa direzione, come l’introduzione di nuove pene edittali (cioè inflitte al momento della sentenza) non detentive, come quella della reclusione domiciliare.

Questo vuol dire che un giudice, nel momento in cui dovrà condannare una persona, non avrà più a disposizione solo una pena di tipo carcerario, ma potrà utilizzare direttamente anche altre forme di condanna come appunto quella della reclusione domiciliare. Il carcere dovrebbe rimanere solo una misura estrema.

Fino ad ora l’accesso alle misure alternative al carcere era successivo ad una condanna definitiva che prevedeva il carcere e che solo successivamente poteva essere sospesa, anche dopo un periodo detentivo, con una domanda che veniva esaminata dal Tribunale di Sorveglianza, cioè un Tribunale diverso da quello che aveva pronunciato la condanna. Ciò era uno dei motivi che portava a far sì che molti detenuti che affollavano le carceri in realtà vi entravano per poco tempo e solo in attesa di innescare la procedura per l’accesso alle misure alternative.

C’è da evidenziare che da molti anni, purtroppo senza che l’opinione pubblica ne sia informata correttamente, la cosiddetta area penale esterna, costituita da tutto quel sistema di misure con cui le persone condannate scontano una pena alternativa al carcere, riguarda un numero molto elevato di persone. Nel 2013, ad esempio, le persone condannate che hanno scontato una sentenza definitiva in esecuzione penale esterna sono state 50.673. Inoltre il funzionamento di tale sistema è dimostrato anche dal basso numero di revoche delle misure alternative che ha riguardato solo il 6,60% di persone condannate.

Il problema che sottende all’applicazione di un provvedimento come quello della “messa alla prova” è che è stato fatto velocemente e a costi zero ossia senza fornire alcuna risorsa. Gli Uffici di Esecuzione Penale Esterna che dovranno rendere operativa tale legge di fatto sono servizi quasi al collasso, con gravi carenze di personale. Il rischio è che la legge fallisca per questo e non per una reale sperimentazione della sua opportunità.

Nei prossimi tempi gli operatori dell’esecuzione penale avranno dunque la responsabilità di impegnarsi nel “ripensare” un proprio ruolo, integrato con le Forze dell’Ordine e con i servizi del territorio, nell’adattare e commisurare i loro interventi di sostegno al reinserimento sociale dei soggetti condannati anzitutto per offrire il proprio contributo tecnico e professionale alla riuscita delle soluzione riformiste del sistema sanzionatorio.
È questa forse una delle sfide che mi stimola a lavorare in questo settore, spesso in condizioni non facili.

Rita Bergamo – Ufficio esecuzione penale esterna di Trieste
 

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