Se un medico diventa paziente della medicina

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Il 15 febbraio scorso, a Roma, la sala capitolare del chiostro di Santa Maria sopra Minerva, messa a disposizione dal Senato, accoglieva una conferenza per la presentazione del libro: La relazione: l’essenza dell’arte medica. I medici si raccontano. Nella schiera scelta di relatori, medici di livello, c’era anche il prof. Gianni Bonadonna, ben noto al mondo accademico e sanitario, che con cognizione di causa portava il suo prezioso contributo di medico e paziente insieme. Quando ha preso la parola, la sala si è levata in piedi per tributargli uno spontaneo, caloroso, applauso. È infatti universalmente riconosciuto il suo ruolo di pioniere dell’oncologia medica in Italia. Del prof. Bonadonna avevo letto alcuni libri divulgativi. Incontrarlo ha significato conoscere uno scienziato che rende onore all’Italia e che, non arrendendosi alla carrozzella, ha dato voce al silenzio del malato. Ai non addetti ai lavori, forse questo nome non dice quello che dovrebbe.Nato a Milano nel 1934, e laureatosi in medicina nel 1959, grazie a una borsa di studio in Canada fece pratica al Santa Cabrini Hospital, e quindi al Memorian Sloan Kettering Cancer Center di New York, presso la divisione di chemioterapia diretta da David A. Karnofsky, considerato il fondatore della moderna medicina oncologica. Così fu per caso che divenni oncologo: da quel giorno l’oncologia è diventata la mia vita. Nel ’64 tornò definitivamente in Italia e iniziò a lavorare all’Istituto nazionale dei tumori di Milano, chiamato dall’allora sindaco Pietro Bucalossi. Di quei primi tempi racconta nel libro: Un po’ irruente com’era e com’è anche oggi il mio carattere, dissi a Bucalossi che la terapia dei tumori non era solo chirurgica e radioterapica e che l’istituto doveva qualificarsi anche per la terapia medica, se voleva diventare un vero e proprio centro di riferimento. Occorreva quindi un’impostazione più sistematica e sarebbe stato opportuno creare un reparto di chemioterapia clinica. Mi guardò di sottecchi e sbottò: Mai contento lei?. E qualche tempo dopo, lungo per me ma breve per lui, mi affidò ufficialmente la responsabilità di un piccolo reparto, l’embrione di quella che qualche anno più tardi, nel 1968, diverrà la divisione di oncologia medica, la prima creata in Italia. In quegli anni, quando iniziarono queste ricerche – e anche dopo, nonostante tutti i progressi – la diagnosi di cancro restava una cosa seria. Grosso modo sopravvivevano il 30 per cento dei malati, i quali per la maggior parte erano stati sottoposti ad operazione chirurgica. Un’irreparabile disgrazia, senza neanche, all’epoca, il supporto adeguato di una terapia del dolore in grado di lenire quelle famose sofferenze. Ma si fa ancora fatica ad abbandonare il termine brutto male e si continua a dire male incurabile. Invece il cancro, grazie anche agli studi del prof. Bonadonna, è ormai curabile e spesso guaribile. L’oncologia è una branca della medicina, certo, ma è anche una questione che coinvolge il mondo della informazione, la qualità della vita, le prospettive per il futuro. La battaglia contro il cancro è una questione culturale prima che scientifica. Essa dipende dal modo con cui vanno trattate tutte le persone, dalle parole usate per spiegare in modo comprensibile diagnosi e programmi di terapia. In una parola, dal rapporto, dalla comunicazione che si instaura tra medico e paziente. Gianni Bonadonna è anche un medico che, dal 1995, ha vissuto un’esperienza terribile passando, come lui dice, dall’altra parte. Ha avuto un ictus cerebrale. Una malattia improvvisa, capace di infrangere ogni cosa in pochi attimi. Confida ai medici presenti in sala, durante la presentazione del libro: Dal cancro si può guarire, molti possono godere di una buona qualità della vita, anche, nonostante quello che comunemente si pensi, fra un ciclo e l’altro della chemioterapia. Invece le conseguenze di un ictus spesso non perdonano, sono presenti tutti i giorni, sono sempre dolorosamente evidenti. Da quel giorno io non sono più quello di un tempo, un ictus arriva e ti segna; per come eri e come sarai. E poi tenti di risalire, minuto per minuto, il burrone in cui sei precipitato . La sala è attenta, rispettando i ritmi del suo discorrere, la fatica delle sue parole che poi arrivano. Malgrado l’ictus, viaggia, tiene conferenze e convegni e scrive libri. Ad ascoltarlo, si apprezzano maggiormente quelli scritti dopo la malattia, come Dall’altra parte a cura di Paolo Barnard, di cui è coautore, e Coraggio, ricominciamo. Tornare alla vita dopo un ictus. Un medico racconta. Ed altri ne ha in cantiere. Penso che il prof. Bonadonna, attraverso la testimonianza, elabori la sua dolorosa esperienza e, comunicandola, renda un grande servizio a tanti ammalati e a chi sta loro vicino: i familiari e i medici. Può dire loro, senza timore di essere smentito: Mai arrendersi e alzare bandiera bianca. Non è facile, però. Ce lo ha ribadito nell’intervista. Non è facile, né indolore, questo passaggio dall’altra parte della barricata. Nemmeno per uno, come lui, che, da medico, sapeva tutto su una malattia come il cancro, ma poco, troppo poco, su ciò che vive e prova chi ne è affetto. Per questo, ora, la sua battaglia non è meno appassionata e coinvolgente. Adesso sto concentrando gran parte del mio lavoro sulla umanizzazione dell’arte medica. Perché la medicina è un’arte: perspicacia e intuito, capacità di creare un dialogo con il paziente, tutte queste cose equilibrate e mescolate. Sfortunatamente è doveroso dire che, di fronte alle grandi scoperte della biologia, l’arte della terapia sembra quasi passata in secondo piano. Occorre riscoprire e rilanciare il valore dell’assistenza ai malati. Negli ultimi anni l’università ha privilegiato troppo la dimensione tecnica dei futuri medici trascurando il versante umano della professione. Quindi, l’approccio al malato, a volte, somiglia a quello verso una macchina in avaria: individuato il guasto, ci si limita a porvi rimedio. La cura sembra essere un adempimento tecnico. Di conseguenza il medico stenta a vedere nel paziente la persona.

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