Scoprire l’homo oeconomicus

Razionalità e personalismo sono i caratteri dominanti per l'economia classica. Non per la neuroeconomia e per Luigino Bruni come ci spiega nell'ultimo appuntamento con "Le nuove virtù del mercato"
Gratuità

È frutto inevitabile di una teoria e di una cultura economica tardo-ottocentesche l’idea che il mercato debba essere mosso dall'interesse personale. Al tempo occorreva una legge generale, analogamente a quanto è accaduto con la legge gravitazionale nella fisica moderna, che spiegasse tutte le altre leggi economiche. Arrivò, dominando il campo delle idee per oltre due secoli.

Ma già da dieci anni la neuroeconomia ha spiegato come l'interesse personale sia un fattore marginale dell'agire economico dell'uomo. C'è un altro fattore che muove gli uomini e che solo Genovesi tenne presente nel Settecento: è la gratuità. Ce lo spiega Luigino Bruni nell'ultimo appuntamento con "Le nuove virtù del mercato" di Città Nuova.

«Queste conquiste della recente scienza economica e sociale sono ancora lungi dall’essere entrate nella cultura economica, mediatica e politica della gente, poiché occorrono in media due generazioni perché i nuovi paradigmi passino dagli studiosi alla cultura, al linguaggio e al patrimonio simbolico dei popoli (basti pensare quanto poco newtoniani e darwiniani siamo ancora oggi nel modo di pensare, di usare le metafore, di parlare). E quindi, nonostante il superamento del paradigma egoistico e ormai anche individualistico, le persone comuni e anche i politici quando pensano al mercato e all’economia li abbinano alla ricerca degli interessi e agli egoismi (tesi rafforzate soprattutto nei tempi di crisi).

«E continuano erroneamente a pensare al mercato come a un “gioco a somma zero”, come il poker o la guerra (Edgeworth stesso aveva già individuato questo errore, quando invitava a pensare l’economia, basata sul consenso e sul contratto, in antitesi con la guerra: Edgeworth 1881, p. 16), cioè quelle interazioni sociali dove le vincite alla fine del gioco debbono essere uguali alle perdite, senza che si possano moltiplicare le fiches mentre si gioca. In realtà forse la più profonda caratteristica dello scambio di mercato è proprio la sua capacità di creare ricchezza durante il processo, di far sì che le fiches siano di più alla fine del gioco (anche se qui la metafora non funziona), al punto che quando si capisce bene questa sua caratteristica si rischia di abusarne e distruggere il gioco stesso (crisi finanziaria docet).

«Ecco perché per parlare di mercato come vita, dell’economia come governo dell’oikos, della casa comune, dobbiamo cambiare la nostra prospettiva e inforcare occhiali diversi e capaci di farci vedere e poi leggere le relazioni di mercato non come scambi fondati sulla sola legge aurea degli interessi o egoismi individuali, ma come incontri umani fondati sulla legge di platino del mutuo vantaggio.

«L’idea del mercato come “mutuo vantaggio” era stata già posta da Antonio Genovesi nel Settecento come pietra angolare della nuova società moderna, un mutuo vantaggio che egli chiamava “mutua assistenza” o reciprocità. Per Genovesi gli essere umani prima che cercare interessi e guadagni sono cercatori di stima, di approvazione sociale, di relazioni, un dato antropologico fondamentale che oggi trova anche conferma empirica dagli studi di evoluzione culturale (Tomasello 2009). Se il mercato è fondato sulla reciprocità, allora sì che è possibile leggerlo come un brano di vita in comune, come un momento della società civile, se è vero che la reciprocità è la legge fondamentale dell’intera vita sociale».



[1] Una buona sintesi di questo nuovo paradigma è il libro di Herb Gintis (2009), che si spinge questo nuovo paradigma oltre i confini delle scienze economiche o sociali: «Game theory is a general lexicom that applies to all life forms» (p. 45), invocando una sorta di unificata «behavioral science» (p. 221), che va dall’economia alla biologia, basata sull’evidenza empirica e con lo strumento della teoria dei giochi.

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