Ho scavato tra le macerie dell’hotel Rigopiano

Esattamente quattro mesi fa, il 18 gennaio, una valanga travolgeva la struttura turistica abruzzese. Un'occasione per riflettere sul lavoro dei tanti volontari che, anche al di fuori della zona sotto i riflettori, hanno portato aiuto alle popolazioni colpite dal terremoto e dalle nevicate. Senza sentirsi chiamare "eroi".

Luigi Piccirilli non è un eroe. Che sia chiaro. Lui vive ad Avezzano con la moglie Pamela e le loro tre figlie. Fa il commercialista. È un uomo come tanti. Certo, c’è quella passione per l’alpinismo che non lo ha mai abbandonato. Per questo, finita l’università, è entrato nel Soccorso Alpino: era il 1995 e aveva ventotto anni. Oggi, di anni ne ha cinquanta e, facendo due conti, ventidue li ha trascorsi da volontario, con i suoi colleghi della stazione di Avezzano: soccorrendo e recuperando gli escursionisti in pericolo lungo le piste e i sentieri delle montagne della Marsica, del Parco del Sirente-Velino, di Valle Roveto, dei monti Ernici e Cantari. Lavoro impegnativo ma ordinario. Poi ci sono gli eventi straordinari, quelli che, volente o nolente, fanno uscire il tuo lavoro allo scoperto: e allora la gente comincia a parlare di “eroi” e a te questa cosa proprio non va giù e allora… Riavvolgi il nastro dei ricordi e racconti le cose dal tuo punto di vista.

«È stato detto che sono stato tra i primi soccorritori. Ma non è vero. Io sono arrivato dopo…».

La chiamata dalla Protezione Civile era arrivata intorno alle 17.00 del 18 gennaio. Bisognava portare aiuti, generi di sopravvivenza, farmaci alle popolazioni dell’alto teramano rimaste isolate per le nevicate abbondanti cadute sul terremoto. C’era allerta valanghe e molte strade erano interrotte.

«I colleghi erano partiti ma alle ventuno erano stati deviati verso Rigopiano. Erano arrivate diverse chiamate da un hotel in località Farindola, forse per un evento valanghivo».

I volontari della stazione del Soccorso Alpino di Avezzano si erano messi in colonna con gli altri mezzi della Protezione Civile ma, a nove chilometri dall’albergo, la loro salita si era fermata: un insormontabile muro di neve, ghiaccio e detriti impediva loro il passaggio.

«Secondo la curva di sopravvivenza in valanga, l’operazione di soccorso è efficace solo se portata a termine entro quindici minuti. Più trascorreva il tempo, più la situazione diventava critica per chi era sepolto nella neve».

È così che alcuni di loro decidono di proseguire con gli sci e le pelli di foca. Dopo quasi cinque ore sotto la bufera di neve, arrivano sul luogo della catastrofe, mettono in salvo due persone e recuperano i corpi di altre tre, travolte dalla valanga all’esterno dell’hotel.

Nel frattempo, la mattina del 19 gennaio, parte anche la squadra di Luigi. La strada che era stata aperta durante la notte è di nuovo ostruita da un’altra valanga.

«Siamo arrivati intorno alle 10.00, con l’elicottero. Io ero abbastanza preparato, ma vedere quel mucchietto di macerie mi ha fatto effetto. È stata questione di secondi. Quando lavori, pensi che non devi perdere tempo, che bisogna coordinarsi subito con gli altri».

Cominciano i sondaggi primari, quelli che consentono di valutare il rischio residuo di incidente, di determinare se la valanga ha esaurito la sua potenza o se è ancora in movimento.

«Noi lavoravamo sopra la neve e i Vigili del Fuoco dentro la maceria. Dai sondaggi abbiamo capito che metà della struttura era spalmata sulla valle sottostante, larga almeno 300 metri, e l’altra metà era fatta di macerie, inquinate da gas, cloro, idrocarburi. Sotto, c’erano le persone».

In queste condizioni, l’unico modo per arrivare ai superstiti è scavare con le pale.

«Ma questa storia va raccontata bene», ci tiene a precisare Luigi, «perché mentre noi eravamo sotto i riflettori di Rigopiano con le altre forze della Protezione Civile – e i media hanno cominciato a chiamarci “eroi” – altri miei colleghi portavano aiuti, farmaci e sostegno alle popolazioni nell’alto teramano e nell’aquilano. Il loro sforzo ha lo stesso valore del nostro».

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Luigi e i suoi colleghi si alternano per giorni a Rigopiano per giorni. Scavano sulla valanga e non solo: «Quando c’è tanta disperazione, tanta distruzione, quando sei dentro la lente d’ingrandimento dell’informazione e dell’opinione pubblica, è facile che nascano discordie se non c’è una base di carità reciproca. Il nostro lavoro è stato anche quello di cercare di mantenere la concordia, di fare da trait d’union con i colleghi delle altre forze».

È il lavoro di squadra, la collaborazione, e non l’impresa di singole individualità che ha permesso il salvataggio di tutte quelle persone a Rigopiano:

«Il Corpo Nazionale Soccorso Alpino e Speleologico è fatto di alpinisti, sono cavalli di razza, purosangue, individualità altissime, ma la cosa importante per un volontario è lavorare di concerto con gli altri. Anche chi, la notte tra il 18 e il 19 gennaio, ha deciso di mettere le pelli di foca e passare la barriera della neve, ha preso una decisione condivisa. Non esiste il supereroe, il soccorso alpino si fa in gruppo».

Come i volontari dell’elicottero del 118 caduti il 24 gennaio, dopo aver effettuato un intervento ordinario nei pressi di Campo Felice. Tra loro, c’erano anche Davide De Carolis, Valter Bucci e Mario Matrella, del Soccorso Alpino, che avevano prestato il loro servizio a Rigopiano. Proprio quel giorno, alle sette del mattino, Luigi aveva pubblicato una specie di sfogo anti-eroe sul suo profilo Facebook:

Lavoro e credo nel volontariato fin da ragazzo[…]. Secondo me l’eroismo più vero è quello nascosto. Quello del clown che strappa un sorriso al bimbo malato, del cuoco e dell’inserviente della mensa della Caritas, dell’educatore di ragazzi “difficili” cittadini di “domani”, di quei volontari che lavorano nelle periferie la cui faccia non conosceremo mai… e quindi grazie anche loro.

Per piacere, non li chiamate più eroi, chiamateli tutti “volontari”.

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