Sardegna, isola di pace

Il metodo è quello di non fermarsi ai grandi eventi per sostenere una politica di pace che nasce dalle scelte in campo economico

Dopo le 2 giornate per la pace tenutesi nella cittadina sarda il 5 e il 6 maggio scorsi, la riconversione civile della RWM Italia Spa che, nei pressi, produce bombe per esportarle in Arabia Saudita, appare un po’ meno lontana. Cinque gli eventi in meno di 36 ore, ospiti nazionali e internazionali, qualche centinaio le persone arrivate da tutta l’isola: questi i numeri della manifestazione “Sardegna – Isola della Pace”, un titolo che esprime il programma degli organizzatori: fare dell’isola delle vacanze in mezzo al blu, un luogo di incontro, di accordi internazionali, di testimonianza di solidarietà e di accoglienza, un luogo che esporti pace e non bombe.

Si tratta di un obiettivo ambizioso, soprattutto in una regione che soffre di un maledetto stato di subalternità alle logiche economiche esterne. La storia dell’isola è costellata di vicende che evidenziano sottomissione e scelte politico-economiche poco lungimiranti e inadeguate a uno sviluppo reale dei territori, fino ad arrivare all’industria della guerra, insediatasi negli anni 2000 su quella dell’esplosivo civile per cave e miniere, in crisi come tutto il resto.

Il primo canale della televisione tedesca ha recentemente definito la Sardegna “isola delle bombe” e il New York Times ha dato evidenza mondiale alla contraddizione italiana dell’essere il Paese che «ripudia la guerra» (Art. 11 della Costituzione) e vieta il commercio e il transito sul proprio territorio di armamenti diretti ai Paesi in stato di conflitto armato (L. 185/90) e che, invece, inspiegabilmente, autorizza questo commercio illegale, esercitato nel Sulcis-Iglesiente, da un’azienda di proprietà tedesca.

Nel primo fine settimana di maggio, a Iglesias, è arrivata tanta gente comune, attivisti e responsabili di associazioni locali e nazionali, diversi giornalisti invitati a un seminario di Net One sul tema “Giornalismo e pace”, ma anche amministratori e politici regionali. Tra gli altri, anche l’europarlamentare Renato Soru che, senza mezzi termini, parla di chiusura necessaria.

Non è facile fare affermazioni del genere in una regione dove il tasso di disoccupazione giovanile è intorno al 50% e quella generale supera il 17%, ma l’on. Soru, già patron di Tiscali e presidente della Regione, sostiene che preferirebbe che i dipendenti della RWM venissero pagati per non far niente piuttosto che per confezionare ordigni micidiali. Naturalmente è una battuta, visto che di cose da fare ce ne sarebbero tante!

La sua presenza comunque è, un po’, il segno di quello che è stato il lavoro del Comitato Riconversione RWM dal 15 maggio 2017, giorno della sua costituzione, una settimana dopo la Run for Unity (iniziativa internazionale per la pace dei Ragazzi per l’Unità), organizzata a Iglesias dal Movimento dei Focolari della Sardegna giusto un anno fa, agganciatasi alle altre iniziative presenti sul territorio, che ha voluto evitare di fare solo un generico appello alla pace  proponendo invece obiettivi concreti e condivisi.

Alcuni lo chiamano “metodo Iglesias”: qualcosa ci deve essere se, dopo quell’esperienza, è saltato fuori un Comitato formato da oltre 20 realtà della società civile con presenze che vanno dall’ARCI Sardegna a Legambiente, dalla Commissione nazionale Globalizzazione e Ambiente delle Chiese evangeliche al centro Studi Sereno Regis di Torino, dalla Confederazione Sindacale Sarda a Banca Etica e ad organizzazioni locali che si occupano di autosviluppo, ambiente, partecipazione politica, oltre ai focolarini che ne sono componente sia locale, con la comunità sarda, che nazionale che ha dedicato alla “Economia Disarmata” un gruppo di riflessione e azioni. Intorno a tutte queste aggregazioni, poi, ci sono altre nazionali per la pace: Rete Italiana Disarmo, Tavola della Pace, ecc.

Le bombe prodotte tra Iglesias e Domusnovas vanno a finire nello Yemen, a oltre 4 mila km di distanza, sganciate sulla popolazione dagli aerei della coalizione saudita, con la collaborazione di Usa, Francia e Regno Unito. In tre anni hanno fatto migliaia di morti e contribuito a generare la maggiore epidemia di colera che si sia mai verifica nel mondo, rendendo impossibile una dieta adeguata, l’accesso all’acqua potabile, le cure mediche, perché sono stati regolarmente distrutti ospedali e acquedotti ed è in atto un blocco navale che impedisce l’arrivo di derrate alimentari e aiuti umanitari.

Ma le bombe della RWM, purtroppo, costituiscono solo una parte del poderoso export bellico dell’Italia, al settimo posto nel mondo per fatturato di settore. La gran parte è costituita dal business intorno ai 28 caccia Eurofighter venduti da Leonardo Finmeccanica al Kuwait (altro Paese belligerante) per 8 miliardi di euro. È evidente che il problema non è per nulla etichettabile come sardo, ma è una questione nazionale: i nostri governi negli ultimi anni hanno sistematicamente sottratto alla discussione parlamentare le autorizzazioni ai produttori di armamenti per privilegiare proprio quel settore industriale, arrivando persino a riorientare al bellico intere divisioni del gruppo Leonardo Finmeccanica a maggioranza pubblica, considerato fino a pochi anni fa un leader mondiale dell’elettronica e delle alte tecnologie e ora in buona parte convertito alle produzioni di guerra.

Grande eco ha avuto però sulla stampa nazionale l’appello lanciato dalla manifestazione di Iglesias, sostenuto anche da un documento del vescovo locale Giovanni Paolo Zedda nel quale si sottolinea che «la gravissima situazione economico-sociale non può legittimare qualsiasi attività economica e produttiva, senza che ne valutiamo responsabilmente la sostenibilità, la dignità e l’attenzione alla tutela dei diritti di ogni persona. In particolare non si può omologare la produzione di beni necessari per la vita con quella che sicuramente produce morte. Tale è il caso delle armi che vengono prodotte nel nostro territorio e usate per una guerra che ha causato e continua a generare migliaia di morti. Qualunque idea di conservazione o di allargamento di produzione di armi è da rifiutare».

Un nuovo vento di speranza sostiene quanti si battono per una economia di pace e suscita nuova forza negli esponenti del Comitato, impegnati in un lento, ma fruttuoso lavoro che mira a stimolare consapevolezza e protagonismo in tutte le forze sociali, a partire dai lavoratori incolpevoli della fabbrica, e a richiamare la politica regionale e nazionale a intervenire con urgenza, prima che il problema si allarghi ulteriormente, come accadrebbe se i progetti di ampliamento della RWM, ribaditi nell’ultima assemblea degli azionisti a Berlino, venissero portati a termine.

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